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Sarà il Sahel a raccogliere l’eredità dell’Isis di al-Baghdadi?

È in una delle zone più povere e inospitali del mondo che l’eredità di Abu Bakr al-Baghdadi è pronta ad essere dispiegata: le nuove Raqqa e Mosul potrebbero essere lì, nel Sahel, fra gli adepti di una delle tante organizzazioni terroristiche che destabilizzano l’area. Come quella chiamata in maniera evocativa “Stato islamico del Grande Sahara”. Walid al-Sahraoui, fondatore del sedicente Stato, nel 2015 si è proclamato emiro della potente tribù maliana Al-Mourabitoun ed è stato il primo ad aver stipulato un’alleanza col defunto ‘califfo’. Oggi, dunque, potrebbe essere interessato a “riscuotere”.

Le ultime recenti notizie, passate in sordina, destano non poche preoccupazioni: in questi primi giorni di novembre si contano 54 militari uccisi a Indelimane, nel nord del Mali, a causa di un attacco di radicali islamisti rivendicato dall’Isis, e 38 vittime in Burkina Faso per un assalto terroristico ad un convoglio di una compagnia mineraria canadese del settore aurifero. In ottobre era stata la volta del Niger, dove a Diffa un blitz di Boko Haram aveva portato alla morte di 12 soldati.

Nel Sahel, dove la povertà, la desertificazione, l’elevata disoccupazione e la totale assenza dei governi agevolano la proliferazione di cellule di estremisti, il terrorismo di matrice jihadista si mostra come un’allettante alternativa alla mera sopravvivenza.

Il potenziale operativo della minaccia è enorme: riguarda tutta la cintura di suolo dell’Africa subsahariana che si estende dalla sponda occidentale bagnata dall’oceano Atlantico sino al mar Rosso, coinvolgendo Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, qualche territorio algerino e libico, Niger, Burkina Faso e nord della Nigeria, una parte di Ciad, le zone centrali del Sudan (Darfur e Kordofan) e alcune regioni del Corno d’Africa. Luoghi che geomorfologicamente si caratterizzano per la loro omogeneità: vaste savane, terreni difficili da sfruttare, scarsità di acqua e una temperatura rovente che aumenta di anno in anno in misura maggiore rispetto al resto del mondo, per effetto del cambiamento climatico.

Alcuni di questi Paesi stanno sfruttando bene le possibilità derivanti dalla cooperazione internazionale. In Senegal, ad esempio, sta avendo successo il monumentale progetto della Grande Muraglia Verde, che prevede la riforestazione di una fascia lunga tutto il Sahel per fermare l’avanzata del deserto. Concepito con l’idea di apportare un impatto positivo sul clima globale, addirittura superiore alla barriera corallina, il sogno della Grande Muraglia sembra però quasi un’utopia, se si conta che una simile impresa dovrebbe essere condotta in zone prive di strade e rifornimenti, la cui sicurezza è in rapido deterioramento, avvalendosi di fondi da mettere nelle mani di un’endemica corruttela.

La crisi maliana, la violenza in Niger e in Burkina Faso, l’instabilità del Corno d’Africa, la minaccia di Boko Haram e degli al-Shabaab, l’influsso di al-Qaeda nel Maghreb e le spinte ribelli dal sud dell’Algeria sono tutti pezzi di un puzzle che rischia di saldarsi irreversibilmente. Ma i grandi disegni del terrorismo globale sfuggono ai piccoli partecipanti di questa guerra. Il bacino principale di reclutamento coinvolge popoli nomadi come i Fulani, i Tuareg o i Saharawi: pastori che un tempo si spostavano fra territori oggi divenuti sterili. Con una frequenza sempre maggiore, migrano per diventare sedentari o invadere i campi agricoli, scatenando quell’ancestrale conflitto con i contadini che ora, proprio nel Sahel, sta raggiungendo proporzioni drammatiche. L’emarginazione dei nomadi avviene in una popolazione di 150 milioni di individui, di cui il 64% ha meno di 25 anni.

Davvero facile indurre questi giovani ad imbracciare le armi. Lo Stato Islamico del Grande Sahara, perciò, si sta cominciando a muovere esattamente come l’Isis: sta costruendo un sistema di welfare ed assistenzialismo che sopperisce all’assenza del governo, proteggendo le famiglie dei combattenti, fornendo istruzione ai più piccoli e speranze di carriera (mediante l’arruolamento nelle file dei ribelli) ai più grandi. Agendo come un soggetto pubblico, d’altronde, lo Sigs impone il pagamento di imposte e gabelle, stipulando alleanze con le tribù locali e spesso, come testimoniato da varie Ong, con le reti di trafficanti di stupefacenti, di esseri umani e persino di organi.

All’opposto, le misure militari di contrasto, scaturenti da iniziative nazionali o multilaterali, stanno mostrando risultati limitati: l’operazione Barkhane dei francesi in Mali, ad esempio, si deve scontrare con una certa resilienza dei gruppi armati e con le perdite umane, civili e militari, che avvengono senza soluzione di continuità. La Minusma dell’Onu è sul campo dal 2013 ma ha ricevuto critiche per la poca incisività e mancanza di mezzi. Il cosiddetto G5 del Sahel deve ancora superare troppi ostacoli logistici e politici.

In questo contesto, paiono più utili le missioni di addestramento militare, come quelle dell’Unione Europea (Eutm) in Mali e Niger, cui si aggiunge quella italiana, il Misin, attivata a Niamey con il supporto della nuova ambasciata, istituita nel 2018 con l’assegnazione dell’ambasciatore Marco Prencipe. Nel frattempo, però, gli scontri armati hanno dato luogo a una vera e propria emergenza umanitaria, con 4,2 milioni di rifugiati e altrettanti individui privi di una benché minima fonte di sostentamento.

La chiave, come spesso si sente dire, è nella cooperazione allo sviluppo, quella lenta e graduale opera di supporto economico, logistico, manageriale che può davvero cambiare le sorti di un paese. L’Unione Europea, con la sua strategia per il Sahel, ha istituito due fondi di sviluppo e stanziato ben 8 miliardi di euro per il periodo 2014-2020. Ma talvolta la cooperazione viene inquinata dai noti Paesi poco democratici, che con spirito neocoloniale o predatorio, vanificano gli sforzi conseguiti.

Serve, dunque, un antidoto efficace per arginare quell’emergenza migratoria che proprio dal Sahel spinge sui confini del Paese che più propende verso il cuore del mediterraneo: l’Italia.

L’uccisione di al-Baghdadi è certamente un evento epocale, ma tagliare la testa di un’Idra non impedisce che se ne formino delle altre. Bisogna mantenere alta la guardia e il Sahel è il posto in cui più facilmente potrebbero attecchire nuove ed imponenti minacce. Secondo stime della World Bank, nel 2050 ci abiteranno 340 milioni di persone. Di queste, almeno 85 milioni saranno costrette ad emigrare. I “figli delle nuvole”, chiamati così perché si spostano in funzione delle piogge, non è detto che abbiano ancora la pazienza per vagare fra le loro dune incandescenti.



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