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Un’azalea in via Fani. Per non dimenticare (e per riconciliarci con la nostra storia)

Di Angelo Picariello

Questo viaggio fra gli ex della lotta armata che sono riusciti faticosamente a ritrovare il rapporto con se stessi, con la società e – in molti casi – anche con le famiglie delle vittime, è per me un’idea che viene da lontano. Correvano gli anni 1976, ’77, ’78: anni di tensioni e passioni contrapposte. Epoca di grandi cambiamenti, e grandi utopie. Epoca, anche, dell’esplosione delle radio libere, e poi delle tv locali. Il modello marxista era divenuto l’archetipo dei movimenti egualitari e di liberazione. In particolare mi incuriosiva il cosiddetto socialismo utopistico, che vedevo come un’alternativa al totalitarismo e si allacciava alla prospettiva di quella sorta di paradiso in terra evocato da Marx, senza negare la dimensione religiosa: aspetto fondamentale per chi, come me, si era lasciato preferire dalla proposta cristiana, per mere ragioni di “contagio”, come era frequente in quegli anni e a quell’età. Cosicché, qualcuno che mi conosceva in profondità pensò bene di regalarmi per i miei 18 anni un libro cult dell’epoca, di Giorgio Bocca: Il terrorismo italiano, 1970-1978, edito da Rizzoli. Il grande giornalista, spirito inquieto (repubblichino da giovane, poi partigiano, filo-socialista e infine grande censore di Bettino Craxi), prendeva di mira gli integralismi delle due “chiese”, come soleva definire tanto quella comunista, quanto quella cattolica propriamente detta. Scriveva Bocca: “Da poco” era il 1978, anno del sequestro Moro, “si è trovato persino un nome per il padre del terrorismo rosso: cattocomunismo. Non solo perché alcuni dei terroristi più noti, come Renato Curcio, Margherita o Mara Cagol – moglie di Curcio, morta in un scontro a fuoco nel giugno 1975 – Maurizio Ferrari, Giorgio Semeria e altri sono stati dei cattolici praticanti, così come Alberto Franceschini, Roberto Ognibene, Prospero Gallinari e altri sono stati iscritti al partito comunista, ma per il modo totalizzante, proprio dei cattolici e dei comunisti, di porsi di fronte alla vita e alla società, perché è cattolico e comunista il bisogno di risposte totali e definitive, il rifiuto del dubbio, la sostituzione del dovere ragionato con la fede, il bisogno di chiesa, di autorità, di dogma, giustificato dal solidarismo sociale e l’attesa dell’immancabile paradiso, in cielo o in terra”.

Bocca indubbiamente metteva il dito nella piaga. Un’intera generazione faticava a trovare dei percorsi – politici, educativi, associativi o religiosi – persuasivi e adeguati alle loro domande. Non trovava una strada praticabile, all’altezza dei sogni e alle aspirazioni messi in circolazione nel Sessantotto, e non voleva ritrovarsi a essere un “Borghese piccolo piccolo”, come quello celebrato dall’omonimo film di Mario Monicelli del 1972.
D’altronde, ridotta l’educazione cristiana, nell’accezione prevalente, a un portato di buone maniere e di moderazione politica (collegato, nell’immaginario collettivo, al partito di potere per definizione, quale era al tempo la Democrazia Cristiana, e all’Alleanza Atlantica) divenne inevitabile che la Chiesa, nella furia iconoclasta di quegli anni, venisse inserita a pieno titolo nell’armamentario di un passato – si direbbe oggi – da rottamare.

Chi cercò invece nell’esperienza e nell’ideale cristiano la risposta alle istanze di giustizia e liberazione dell’uomo rimaste senza risposta dopo il Sessantotto (il cui spirito era intanto sfociato nel movimento del ’77) finì spesso per entrare in frizione con la Chiesa ufficiale. L’esperienza cristiano-sociale che sin dai tempi di don Luigi Sturzo si era alimentata alla Rerum Novarum di Leone XIII e aveva trovato nuova linfa nelle aperture del Concilio, diede luogo a scelte di esplicita rottura con la gerarchia (mi riferisco alle “comunità ecclesiali di base”, ai “cristiani per il socialismo” e ai “cattolici del dissenso”) in polemica con gli Stati Uniti per la guerra in Vietnam e in collegamento con la Teologia della liberazione che nell’America Latina aveva sposato la causa del riscatto dei poveri a sostegno dei movimenti rivoluzionari.

Tanti cattolici – pur coltivando un sincero interesse per le istanze critiche al sistema di tanta parte delle giovani generazioni – continuarono invece a militare nei filoni politici tradizionali, ed è singolare che nel mirino del terrorismo siano finite proprio personalità istituzionali cattoliche fra le più aperte, penso ad Aldo Moro, o a Vittorio Bachelet, assassinati da giovani con i quali avrebbero dialogato volentieri. Si finì insomma per individuare come nemici da togliere di mezzo proprio quelli che meno assomigliavano allo stereotipo che si voleva combattere. Non c’erano più vie di mezzo. Se già militare nel partito comunista veniva bollato come reazionario, se persino il sindacato della sinistra divenne un “nemico” (basti ricordare la celebre cacciata di Luciano Lama, segretario della Cgil, dalla manifestazione indetta alla Sapienza di Roma, il 17 febbraio 1977) si può capire quanto fosse complicata una militanza politica legata al Magistero della Chiesa o al partito – allora unitario – dei cattolici. Non era semplice continuare a sostenere pubblicamente, nelle scuole e nelle università (a volte persino in parrocchia) che la vera liberazione veniva da Cristo e non da Marx, Lenin o Mao.

A Bologna, il mese successivo, accadde un episodio drammatico. L’11 marzo un’assemblea di Comunione e Liberazione alla facoltà di Medicina fu presa di mira da militanti di Autonomia operaia che avrebbero voluto sloggiare dall’aula quei cattolici considerati “reazionari” e “servi della Cia”. Impedito l’ingresso agli studenti che per due volte, in numero crescente, tentarono di interrompere l’assemblea, rimasero alla fine barricati dentro e impossibilitati a uscire, visti i numeri e i cori minacciosi dello schieramento che col passare delle ore si era formato in strada. Quarant’anni prima dell’avvento dei social network, il tam tam avveniva attraverso le prime radio libere e “Radio Alice”, emittente di riferimento del Movimento aveva chiamato a raccolta migliaia di militanti contro la “provocazione” di Cl. A un certo punto la polizia dispose l’uscita degli studenti cattolici da un ingresso secondario. Ma gli scontri fra militanti e agenti proseguirono e – colpito da un proiettile – perse la vita uno studente venticinquenne di Lotta Continua, Francesco Lorusso. Il tragico evento innescò una spirale di violenza: iniziò la caccia al ciellino e gli assalti alle sedi di Cl in tutta Italia.

Anche al liceo scientifico di Avellino Pasquale Stanislao Mancini, dove io studiavo, arrivarono echi di questi eventi, sebbene in classe mia le dispute ideologiche non è che avessero gran seguito. L’unico scontro era fra due squadre di calcio, una sorta di derby permanente che si disputava nel campetto scoperto davanti la palestra. Al banco davanti al mio, però, due compagni leggevano Lotta Continua e Il Manifesto e spesso attingevo anch’io ai loro fogli. Mi attiravano soprattutto le lettere dei militanti, che trasferivano il grido di dolore di una generazione che si sentiva perduta nel baratro esistenziale lasciato da un’ideologia che non manteneva le promesse. Molti rinunciarono, preferendo il classico posto in banca, ma tanti altri finirono nel giro della lotta armata.
La consistenza e la pericolosità di queste aggregazioni che teorizzavano la violenza fu a lungo sottovalutata. Nel 1975 lo stesso Bocca su Il Giorno, prestigioso quotidiano dell’Eni, aveva parlato di “eterna favola delle Brigate Rosse per bambini scemi o insonnoliti”. Favola “vecchia, sgangherata, puerile, ma raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla”.

Oggi, cadute le ideologie, a trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, nuovi rischi vengono da un uso distorto della religione che ci ha portato fin dentro una terza guerra mondiale a pezzi (come la definisce papa Francesco). E forse, allora, per non ricaderci, è il momento giusto per far parlare i protagonisti in negativo di quegli anni. Per tirar fuori dal loro doloroso cambiamento una prospettiva di speranza in questi anni difficili, nel pieno di una crisi interminabile che sembra averci rubato anche il senso dello stare insieme. Per scoprire da loro che ci sono tante possibilità di impegno concrete e praticabili, qui e ora, per pro vare a cambiare le cose, senza diventare prigionieri dell’odio e della violenza, inseguendo false promesse di un domani migliore. “Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere, perpetuamente, della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”, scriveva Moro nel 1943 nelle sue dispense di filosofia del diritto.

Una rivoluzione delle piccole cose. Per contribuire ciascuno a modo suo a un mondo più giusto, iniziando da se stessi prima di pretenderlo dagli altri o dai massimi sistemi. Per i nemici di allora è giunto allora il momento di parlarsi. Per provare a capirsi, o anche a perdonarsi. Un processo che non poteva compiersi in pochi anni, certo, ma ora bisogna evitare che diventino troppi.

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