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Vi spiego cosa ha fatto scappare Mittal. Parla Caroli (Luiss)

Chi viene in Italia a investire vuole regole, magari poche, ma certe. Cambiare le carte in tavola è un giochino pericoloso quando si ha davanti un grande investitore estero, come Arcelor Mittal. Il governo giallorosso lo ha fatto e il gruppo franco-indiano ne ha tratto le conseguenze: restituzione dell’acciaieria ai commissari e tanti saluti. E pazienza se per il Paese ci sarà un danno da 24 miliardi, l’1,4% del Pil nazionale, oltre a migliaia di famiglie per strada. Il governo, certo, si è impegnato a trovare una soluzione per scongiurare la chiusura di Taranto, magari persino a far cambiare idea a Mittal. Ma ciò non cambia la sostanza: sfidare la pazienza di chi mette sul piatto 5 miliardi e passa, è stato un errore. Matteo Caroli, professore ordinario di economia e gestione delle imprese internazionali alla facoltà di Economia dell’Università Luiss, spiega in questa conversazione con Formiche.net quale è il vero male oscuro di questo Paese.

Professore, Mittal ha annunciato l’addio all’Ilva. Non è che per caso ha ragione?

Quello che emerge da questa vicenda è il contesto in cui i grandi investitori si trovano ad operare in questo Paese. Un contesto di incertezza costante e questo per gli è un grossissimo problema. Purtroppo il caso Ilva è un esempio emblematico di tutto questo. Occorre dare stabilità alle condizioni normative in cui viene fatto l’investimento perché questi continui cambiamenti ai quali le nostre imprese sono giocoforza in una certa misura abituate, non valgono all’estero.

E Mittal ha dimostrato che cambiare le regole in corsa non funziona…

Esattamente. Non è comprensibile per un investitore internazionale pensare di dire che una regola c’è, poi non c’è e magari di nuovo c’è. All’estero queste cose non le comprendono. Non voglio entrare nel merito e dire che è giusta la regola sullo scudo penale o è giusto averla tolta, non è questo il punto. L’errore sta nel continuo cambiamento di fronte. Quando si prende una decisione quella deve rimanere, non si può cambiare ogni volta idea, è letale.

Molti osservatori hanno fatto notare che una certa cultura respinga l’idea di uno sviluppo industriale che vada di pari passo con l’ambiente. Che ne pensa?

Penso che recenti studi, come quello di Fondazione Symbola, dimostrano che sia possibile, anzi è già realtà, un grande sviluppo di imprese green, con grandi produzioni e investimenti inseriti in una logica di economia circolare, che creano valore aggiunto al Paese e miglioramento delle stesse condizioni ambientali. Questo è il nuovo e dimostra che industria e ambiente possono andare d’accordo. Chiaramente, i settori tradizionali come l’acciaio, i cui stabilimenti sono stati costruiti con logiche oggi non ammissibili ma accettate in passato, pongono un problema. Di qui la grandissima sfida dell’Ilva…

E cioè?

Coniugare le esigenze di non inquinare con quella di mantenere un sito produttivo vitale per l’industria italiana.

Torniamo al punto di partenza… Per farlo serve un investitore che possa lavorare tranquillo…

Sì, serve un investitore che possa lavorare tranquillo e che rispetti le regole che però a loro volta devono essere chiare e soprattutto non stravolte ogni volta.

Caroli lei un’Ilva di Stato la immagina?

No. Ma non perché non può funzionare, ma perché non è la natura della proprietà che può cambiare le cose. Quello che fa la differenza è il sistema di regole certo sul rispetto dell’ambiente e sugli investimenti dell’impresa. Pubblico o privato non cambia. Il primo deve fissare regole chiare ed efficaci e verificarne il rispetto, il secondo mettere le risorse per portare avanti gli investimenti.

Come ne esce l’immagine dell’Italia dal caso Ilva?

Come quella di un Paese dove è rischioso effettuare grossi investimenti. Mi aspetterei da parte del pubblico un lavoro di comunicazione per spiegare le regole. Altrimenti all’estero non sanno che cosa fare.

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