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Come combattere la mafia. Gennaro Malgieri legge Gaetano Mosca

Il 1° febbraio 1893 viene assassinato a Palermo il banchiere Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, eminente personaggio dell’economia, della finanza, della politica e del notabilato. Il suo omicidio approda addirittura in Parlamento. Il processo, destinato a durare anni, viene spostato per legittima suspicione a Milano. Diventa un caso nazionale. Sul quale non soltanto le forze politiche si interrogano, ma anche gli intellettuali tentano di dare una qualche interpretazione più che del fatto in sé, del contesto nel quale è maturato.

Gaetano Mosca (1858-1941), celeberrimo scienziato della politica, giurista e storico, tiene nel 1900 una conferenza prima a Torino e poi a Milano il cui testo, in quello stesso anno, verrà pubblicato nel Giornale degli economisti con il titolo “Che cos’è la mafia”. Una riflessione, un’analisi, una indagine che viene letta ancora oggi come una sorta di “guida” orientativa nei meandri oscuri e tortuosi dell’essenza mafiosa.

L’editore Nino Aragno, sempre alla ricerca di testi rari, raffinati, “introvabili” a volte e comunque “fonti” del pensiero, ripropone il libriccino di Mosca, curato da Giacomo Ciriello, studioso della materia ed esperto di pubblica amministrazione (“Che cosa è la mafia”, pp.58, € 12,00), innervando l’antica questione nella discussione odierna che in oltre un secolo non ha perso minimamente la “freschezza” della sua attualità. Al punto che se Mosca si poneva la domanda sull’essenza, o meglio sullo spirito, della “mafiosità”, non diversamente oggi, per tentare di venire a capo del fenomeno criminale, vasto, complesso e ramificato, siamo costretti a tornare a quell’interrogativo nella speranza di venirne a capo pur nutrendo molta giustificata sfiducia.

Il testo di Mosca, tra l’altro, contiene opportune e lungimiranti considerazioni, sulla cosiddetta “mafia in guanti gialli”, vale a dire quella forza delinquenziale che usa metodi criminali pur celati da un’apparente legalità, esercitando la tipica forza delle mafie fuori dalle mafie, vale a dire in tutti quegli ambiti della società civile disposti ad entrare in relazione con essa. E dunque non soltanto a supportarla politicamente e finanziariamente, ma a farne un elemento imprescindibile nel condizionamento della vita della comunità nazionale. Da qui la sua pericolosità che stiamo sperimentando con sempre maggiore stupore per non si sia compreso – giusta l’annotazione di Ciriello – che la mafia sarà sconfitta quando finalmente nessuno la considererà interlocutrice astenendosi dall’intrattenere rapporti con essa.

Mosca l’aveva compreso. Ed aveva lanciato il suo monito, da studioso dei fenomeni politici e sociali e da siciliano che conosceva bene l’indole dei suoi corregionali. La mafia non era per lo studioso, e non lo è per noi, un sistema criminale assimilabile a qualsiasi altro. È molto di più. Dice Mosca: “È una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali”. In particolare in Sicilia, con la parola “mafia”, o meglio con la sua essenza, vale a dire con lo “spirito di mafia”, si indica “non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penate e qualche volte sono veramente delittuosi”.

Dunque l’estrema opacità del fenomeno rende difficile l’opposizione ad esso ed il più duro contrasto. Anche perché, come ripetutamente sottolinea Mosca, il fondamento del fenomeno è un “sentimento”, o meglio “lo spirito di mafia” che consiste “nel reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale, alla polizia ed alla magistratura per la riparazione dei torti ricevuti”. La “filosofia” della mafiosità si condensa nella viltà, nella vendetta e nell’omertà, elementi coperti o giustificati da un malinteso senso dell’onore.
In particolare l’omertà, che costituisce il perno dello spirito mafioso, è la regola secondo la quale, al fine di ingannare le autorità, bisogna tenere un atteggiamento di “ignoranza” volontaria dei fatti conosciuti al punto di reputare disonorevole l’offrire informazioni utili agli inquirenti.

Sbaglierebbe chi ritenesse lo “spirito di mafia” una specialità solamente siciliana, diceva Mosca anticipando di molti decenni studiosi ed operatori del diritto. Esso si trova e si manifesta ovunque la giustizia sociale “si è mostrata o si mostra incapace a sradicare ed a sostituire del tutto il sistema della vendetta privata”.

Da questa, infatti, nasce il crimine anche nelle forme più “spettacolari” come lo “stragismo”, ultimo prodotto della mafiosità unitamente alla finanziarizzazione della stessa che comporta l’agire criminoso ai livelli più alti dove si assumono decisioni inerenti politiche economiche e perfino di governo. In che modo? Mosca l’aveva descritto anzitempo, con parole che possiamo sottoscrivere a centoventi anni di distanza: “La conseguenza più brutta dello spirito di mafia sta nel fatto che mercé di esso acquistano una vitalità straordinaria un gran numero di piccole associazioni di malfattori”. La loro “egemonia” occultata da un affarismo talvolta discreto, talaltra spregiudicata, è ormai dilagata in tutto il modello, si è fatta modello affaristico-criminoso al punto che tanti soggetti, spesso tra i più altolocati della società, sono parte della mafia o collusi con essa o “facilitatori” dei loro traffici. Ed era tutt’altro che estraneo, al tempo di Mosca, come ai nostri giorni, che l’ “amicizia” fra il ricco intinto di spirito mafioso ed il povero facinoroso sono differenziate e variegate, una modalità che non consente un contrasto omogeneo al fenomeno mafioso.

Secondo lo studioso per estirpare la mala pianta c’è bisogno di “energia, solerzia, accorgimento ed una cura lunga e perseverante”. Unitamente al coraggio di ribellarsi al quieto vivere e di chiudere “la triste era di codardia morale”.

“Che cosa è la mafia” è una grande lezione civile, morale, giuridica. Il nostro presente è intriso di mali antichi che non si sono potuti o saputi debellare. La prospettiva di liberarci dal cancro mafioso diventa sempre più difficile. L’internazionalizzazione del crimine rende complessa l’individuazione di santuari e di animatori dello “spirito mafioso”. Eppure tra le considerazioni di Mosca si scorgono intelligenti e avveniristici approcci per farla finita con un modo di essere, oltre che con un’organizzazione delinquenziale che malauguratamente è entrata a far parte, e vi si sì insediata, del paesaggio italiano e non solo. Un libro che tutti dovrebbero leggere.

gaetano mosca

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