Secondo le stime dell’Agenzia spaziale europea (Esa), divulgate appena prima del vertice che si aprirà domani a Siviglia, in Europa le vendite (commerciali e non) hanno generato fino allo scorso anno circa il 45% del volume di affari dell’industria spaziale del continente. Eppure, secondo l’Agenzia, “la pressione della concorrenza che dispone di mercati istituzionali più ampi e chiusi alla concorrenza esterna” potrebbe intaccare drammaticamente la quota di mercato delle società europee.
Il rapporto dell’Esa non menziona Paesi specifici, ma dà voce alle preoccupazioni delle aziende continentali che si lamentano di essere spesso superate dai loro concorrenti americani e cinesi, i quali prosperano grazie anche a importanti programmi istituzionali che ne accompagnano la crescita. In sintesi, l’Esa afferma che “è improbabile che i profitti commerciali possano essere sufficienti a sostituire il supporto governativo che finanzia sia i programmi infrastrutturali che la ricerca di base nello Spazio”. Ovvio che tali affermazioni rientrino a pieno titolo in una logica di marketing istituzionale che l’ente spaziale mette in atto per far convergere un ampio consenso sulle richieste di finanziamento. In fondo, alla conferenza ministeriale in Spagna, l’Esa chiederà ai suoi 22 Stati membri di contribuire con 12,5 miliardi di euro nei prossimi tre anni, sostenendo quindi un impegno economico non indifferente per il quale val bene invocare il rischio industriale vis-a-vis della competizione internazionale.
Il punto è che non bastano solo i finanziamenti a mantenere la competitività, ma bisogna accompagnare il supporto economico a una strategia di sviluppo che ponga davvero l’industria un passo avanti ai concorrenti. E infatti, nel rapporto “Space19+”, l’Esa indica dei precisi obiettivi tecnologici per migliorare la competitività europea. Primo, ridurre entro il 2023/2024 i tempi e i costi di realizzazione dei satelliti di un fattore del 30% rispetto agli standard attuali. Secondo, raddoppiare il numero di dimostratori tecnologici a TRL-8 e -9 utilizzando sia elementi Cots (Commercial Off The Shelf) che CubeSats/SmallSats. Terzo, sviluppare entro il 2030 adeguate tecnologie robotiche per gestire e ridurre i detriti spaziali.
“Questi obiettivi sono ambiziosi ma realistici”, scrive l’Esa che ritiene che possibile raggiungerli attraverso una migliore efficienza di gestione (cioè grazie a un miglior management dell’ente stesso) e, soprattutto, con un aumento del 20% dei finanziamenti dei governi. Obiettivamente si tratta di un obiettivo strategico più ambizioso di qualsiasi altro sia stato annunciato in passato dall’Esa alla vigilia di un vertice ministeriale. Tuttavia appare genericamente ad ampio spettro e quindi difficilmente verificabile con metriche misurabili. Un po’ come gli obiettivi del Trattato di Parigi del 2015 che prevedevano un piano d’azione per limitare il riscaldamento globale “ben al di sotto” dei 2°C e per proseguire tutti gli sforzi possibili per mantenerlo entro 1,5°C. Il rischio, cioè, è che si scivoli in enfatiche dichiarazioni di principio carenti di concrete politiche attuative.
Tornando all’industria spaziale, è indubbio che da un punto di vista strategico la realizzazione di tali obiettivi costituisca un asset proficuo, ma siamo certi che sia sufficiente, per esempio, a raggiungere competitori come l’americana SpaceX che continua a macinare lanci di razzi e satelliti? Per il suo progetto Starlink di telecomunicazioni globali, Elon Musk vuole realizzare una mega costellazione di 12.000 satelliti, ma SpaceX prevede che già con 400 disporrà di una copertura globale “iniziale” e con 800 ne avrà una “moderata”, in grado cioè di offrire servizi accettabili su scala planetaria. Oggi, alla vigilia del vertice Esa, la SpaceX ha già messo in orbita 120 satelliti Starlink dopo due soli lanci, ed è quindi ragionevole immaginare che entro il 2023, quando l’Esa avrà realizzato (speriamo) i suoi obiettivi di efficientamento, la società di Musk ne disporrà di qualche migliaio. E a quel punto, forse, la competitività europea necessiterà di altre metriche di misura.
Ma restiamo al presente e andiamo nello specifico. Al di là degli obiettivi strategici di lungo periodo, il direttore generale dell’Esa Jan Woerner sta per chiedere ai 22 Stati membri 2,7 miliardi di euro (pari al 22% delle richieste totali) per lo sviluppo dei lanciatori. Questi fondi comprendono sia i lavori di ammodernamento nello spazioporto europeo di Kourou che l’accompagnamento alla produzione di Ariane 5 e Vega (due eufemismi per indicare dei sussidi all’industria per la gestione della base di lancio e per la produzione dei lanciatori), ma anche il completamento alla realizzazione dell’Ariane 6 e i suoi miglioramenti. L’idea di quest’ultimo punto è quello di prepararsi alle evoluzioni a breve termine del futuro lanciatore così come alle sue potenziali varianti a più lungo termine.
Ariane 6 però è ancora in fase di sviluppo, il primo lancio è previsto per la fine del 2020 e vale la pena ricordare che esso non presenta nessun avanzamento tecnologico rispetto all’attuale lanciatore in servizio, che ha peraltro un eccezionale track record di successi. Praticamente, l’unica concreta innovazione sarà data dalla possibilità di riaccensione multipla dell’upper stage Vinci che oggi sull’Ariane 5 non ha questa funzionalità. E pur tuttavia, secondo la singolare tassonomia dell’Esa, è necessario sin da ora elaborare “sviluppi complementari” dell’Ariane 6 da implementarsi nei prossimi anni per, immaginiamo, migliorare ulteriormente la sua competitività. Non può non sfuggire una certa criticità che sottende la logica di un tale razionale e che riporta alla realtà la suggestione dei “grandi” obiettivi del rapporto Space19+. Pur nella speranza che il Vertice europeo in procinto di cominciare ponga concretamente le basi per questa strategia dell’Esa, una volta terminato il meeting la governance dello Spazio del nostro Paese sarà chiamata a verificare che quanto si svilupperà in Europa coniughi efficacemente la ricerca degli enti scientifici e le attività industriali delle nostre aziende con la dichiarata strategia nazionale a tutela, soprattutto, di quanto investito dal governo, cioè dai contribuenti italiani.