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Via da Tripoli e lontano dalla Russia. Il monito Usa ad Haftar sulla Libia

“Chiediamo all’Esercito nazionale libico di porre fine alla sua offensiva, facilitare la cooperazione Usa-Libia e prevenire i tentativi della Russia di sfruttare il conflitto. Gli Stati Uniti sostengono la sovranità e l’integrità territoriale della Libia“. La dichiarazione di Morgan Ortagus, portavoce del dipartimento di Stato statunitense, è secca e perentoria. Arriva nel giorno in cui governo degli Stati Uniti e quello di accordo nazionale libico, rappresentato dal ministro degli Esteri, Mohamed Siala, e degli Interni, Fathi Bashaga, hanno avviato un dialogo sulla sicurezza.

Un richiamo duro contro le ambizioni libiche di Mosca legate al signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar, che ha lanciato alla conquista di Tripoli la sua milizia, l’Esercito nazionale libico (Haftar ha dato alla sua milizia un nome altisonante, ne divide i gruppi interni secondo le gerarchie militari, li tratta da reparti ordinari, nel tentativo di confondere le acque ed accreditarsi con maggiore legittimità).

Il piano per rovesciare il governo che lavora sotto egida Onu nella capitale è partito il 4 aprile. Sette mesi senza risultati; sette mesi che hanno già prodotto centinaia di morti e danni tra i civili. La Russia sul dossier libico ha sempre tenuto una posizione mascherata: seguendo una schema già visto, ha cercato di facilitare il dialogo tra le due fazioni, senza però abbandonare il contatto con l’Est, giocato in forma clandestina soprattutto attraverso le società militari private come la Wagner (strettamente collegata al Cremlino).

La posizione presa dal dipartimento di Stato non è nuova però. Il 9 aprile era stato il segretario Mike Pompeo a firmare una dichiarazione con cui chiedeva “immediatamente” il cessate il fuoco e il ritorno allo “status quo ante”, ossia il ritiro dalla fascia meridionale tripolina degli haftariani. La traiettoria di Foggy Bottom era stata deviata però poco dopo, quando era stato reso pubblico un contatto diretto tra Haftar e Donald Trump. Non è chiaro se sia stato il presidente o l’allora consigliere per la Sicurezza nazionale il protagonista per conto degli Usa, ma c’era stata una telefonata — di cui la Casa Bianca ha gestito male la comunicazione, passandola formalmente ad alcuni giornalisti del team interno, per poi non inserirla nei documenti pubblici.

Secondo alcune ricostruzioni, Trump fece quella telefonata ascoltando le pressioni del generale/presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che il 9 aprile era nello Studio Ovale in visita ufficiale. Egitto ed Emirati Arabi sono i principali sponsor di Haftar, e ai tempi erano sufficientemente convinti che l’uomo forte della Cirenaica ce l’avrebbe fatta a prendere il paese (seguendo anche i loro interessi). Ora al Cairo e ad Abu Dhabi sono molto meno convinti: l’offensiva è in stallo, Haftar ha trovato una forte opposizione da parte delle milizie di Misurata, intervenute a difesa del governo di Tripoli (o per meglio dire contro Haftar).

Di questo probabilmente si parlerà oggi nel vertice egiziano-emiratino, ma anche la dichiarazione del dipartimento di Stato avrà un suo peso. Perché se è vero che la telefonata con Trump doveva servire a dialogare con Haftar, la dichiarazione del dipartimento di Stato disinnesca – ancora più adesso, dopo sette mesi di insuccessi – la campagna haftariana su Tripoli. E arriva per altro dopo una serie di movimenti diplomatici che l’ambasciata statunitense in Libia ha condotto sul fianco del governo onusiano.

Di più, perché quella dichiarazione adesso potrebbe essere frutto di un altro contatto tra Trump e un altro attore regionale. Una manciata di giorni fa alla Casa Bianca c’era infatti il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Ankara è la principale sostenitrice delle forze di Misurata, e sul terreno libico gioca anche interessi geopolitici di impronta ideologica contro Egitto ed Emirati; si tratta delle dottrine di interpretazione dell’Islam intra-sunnismo che si muovono in uno scontro proxy che interessa tutta l’area del Grande Medio Oriente.

È una speculazione, ma nel nuovo riallineamento Usa-Turchia, Erdogan potrebbe aver strappato (come nel caso del lasciapassare siriano) un qualche impegno da Trump, chiedendogli di muovere certe pedine sulla Libia. Da lì la posizione dell’amministrazione via dipartimento di Stato – peraltro molti degli apparati, esteri, Pentagono, intelligence, Congresso, in realtà hanno sempre ritenuto più naturale quel lato dello schieramento (fermo restando che la Libia non è considerato un interesse prioritario dagli Usa). Questo ragionando su un’interpretazione laterale e una ricostruzione temporale.

Dritto per dritto è invece la stessa Ortagus a spiegare come mai gli Stati Uniti in questo momento chiedono ad Haftar di fermarsi in modo così diretto. Temono una nuova Siria. E la temono ancora di più adesso che sono uscite informazioni sempre più dettagliate sul gioco che la Russia sta tentando alle spalle di Haftar. Una penetrazione libica a sostegno del capo-miliziano della Cirenaica che segue un copione già visto. Gruppi di contractor militari privati collegati al Cremlino starebbero aiutando sul campo gli haftariani. Lo dicono fonti di stampa, e figurarsi se l’intellingence americana non ne è già a conoscenza.

Qui si apre un altro capitolo. Trump ha più volte fatto capire di essere pronto a riaprire i contatti con Mosca, o meglio con Vladimir Putin. Invece gli apparati non si fidano, ancora molte delle strutture interne allo stato americano non credono alla Russia come un interlocutore affidabile. Anzi, è vista come un attore da tenere il più lontano possibile da certi focolai delicati, perché la sua penetrazione è letta come strategicamente negativa.



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