Skip to main content

Ilva, missione impossibile ma necessaria. L’analisi del prof. Pirro

L’incontro di mercoledì durato tre ore svoltosi a Palazzo Chigi fra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte – accompagnato dai ministri Gualtieri, Provenzano, Catalfo, Patuanelli, Speranza, Bellanova e dal sottosegretario Turco – e Lakshmi Mittal, maggiore azionista del primo gruppo siderurgico al mondo, seguito dal figlio Aditya, ha fatto il punto della situazione determinatasi dopo l’annuncio ufficiale da parte dell’azienda di retrocedere all’amministrazione straordinaria la gestione dell’intero compendio impiantistico dell’ex Ilva – compreso il grande stabilimento di Taranto, oggi ancora in locazione come tutti gli altri siti – e che sarebbero stati acquisiti in proprietà dal 1° maggio del 2021. A tale retrocessione si accompagna quella dei 10.777 addetti assunti dal 1° novembre del 2018, dei quali 8.277 occupati nel Siderurgico ionico, che tornano come tutti gli altri in carico all’amministrazione straordinaria.

Le cause di tale decisione della società sembravano ormai note: eliminazione dello scudo penale per il periodo di attuazione del piano ambientale, rischi di nuovo sequestro senza facoltà d’uso dell’Altoforno n.2 per difficoltà ad ottemperare entro il 13 dicembre alle prescrizioni imposte dalla Magistratura per consentirne l’esercizio, elevata probabilità che anche per gli altri due altiforni in funzione ovvero l’1 e il 4 si dovessero operare interventi tali da mettere a repentaglio il ciclo produttivo della fabbrica, volontà manifestata dal Ministro dell’ambiente di riaprire l’Aia introducendovi la valutazione preventiva di impatto sanitario, per la quale peraltro non sono stati ancora definiti nelle sedi competenti criteri scientifici, condivisi fra tutte le parti in causa e applicabili in ogni fabbrica del Paese, per poterlo determinare con sufficiente attendibilità.

Ma in realtà, come è emerso poi nella conferenza stampa del presidente Conte, la proprietà – affermando di dover fronteggiare una congiuntura difficile del mercato a livello europeo e mondiale – ha chiesto una riduzione secca di 5mila addetti che, per quanto divisi fra i vari stabilimenti del gruppo, graverebbero soprattutto sull’area a caldo dell’impianto di Taranto. Conte – che pure aveva offerto (giustamente) la riproposizione dello scudo legale – ha ritenuto inaccettabile la proposta dei tagli occupazionali, non solo per una fin troppo evidente ragione di ordine sociale, ma anche e direi soprattutto, perché quella riduzione di personale graverebbe su una sezione del Siderurgico ionico costituita dall’area a caldo (sino a precluderne il funzionamento) che, invece, è e deve restare il cardine dell’acciaieria. Se ne facciano pertanto una ragione quei parlamentari e sindacalisti (e non solo loro) che chiedono la dismissione di quell’area e la trasformazione del sito in un centro di laminazione che come tale non reggerebbe economicamente come sanno tutti coloro che abbiano un minimo di cultura gestionale di impianti siderurgici.

Allora, che fare? Conte giustamente ha detto di volere attendere una risposta da parte di Mittal nei prossimi giorni per verificare se sia possibile una sua retromarcia che, allo stato delle cose, non sembra francamente praticabile, anche se, ovviamente, tutto può sempre accadere: ma l’esposizione rigorosa delle esigenze di contabilità industriale da parte di Lakshmi Mittal a Palazzo Chigi – che speriamo sia stata compresa tecnicamente da tutti i ministri presenti – non lascia molto spazio ad un suo passo indietro. Sarà necessario pertanto lavorare (e subito) ad un piano B, nel mentre nel frattempo bisognerà mettere l’amministrazione straordinaria in condizione sotto il profilo finanziario di poter gestire una fase di transizione di impianti e personale che potrebbe essere anche prolungata. Prestiti allora come per l’Alitalia? Probabilmente, Ue permettendo, verificando le reali necessità e da dove attingere le risorse necessarie.

Così come i Commissari dovranno individuare un direttore di stabilimento (ammesso che se ne trovi uno che voglia esporsi a sempre possibili interventi di Organi giudiziari che in passato hanno falcidiato intere linee di comando della fabbrica), così come si dovrà trovare un direttore commerciale capace di vendere in una situazione di domanda difficile lo scarso prodotto che Taranto può mettere sul mercato per i limiti imposti dall’Aia, e per i rischi incombenti di una nuova sottrazione della facoltà d’uso dell’AFO 2, ed inoltre con Arcelor – che tornerebbe ad essere un temibile concorrente – che presumibilmente può aver acquisito il portafoglio clienti dello stabilimento: insomma, una vera mission impossible, non c’è che dire.

Il presidente Conte poi non ha escluso la rinazionalizzazione fra le ipotesi sul tappeto. Si potrebbe lavorare alla costituzione di una cordata guidata da capitale pubblico – conferito dal Fondo italiano di investimento posseduto al 68% dalla Cassa Depositi e Prestiti – e la partecipazione di acciaieri italiani e/o esteri: l’appello del presidente del Consiglio a tutto il Paese per una sorta (in questo frangente) di union sacrée ci è parso contenesse fra le righe un messaggio/invito a chi potrebbe scendere in campo per rilevare il Gruppo, insieme al capitale pubblico. Certo, la situazione economico-finanziaria di alcuni grandi gruppi della siderurgia nazionale è al momento delicata, e non sembrerebbe offrire grandi margini che pure andranno esplorati.

Ma se rinazionalizzazione dovrà essere – sia pure con una significativa partecipazione di privati cui affidare la gestione operativa degli stabilimenti – bisognerà sapere che le questioni dello scudo legale dovranno restare sul tappeto, perché preesistevano all’arrivo di Arcelor, e soprattutto che dovrà avvenire a prezzo di mercato, perché i Commissari devono ancora ristorare i creditori del Gruppo Ilva posto a suo tempo in amministrazione straordinaria. La nuova società, se nascerà, non dovrà avere oneri pregressi, altrimenti la Cassa Depositi e Prestiti sarebbe impossibilitata ad entrarvi, e sarà necessario poi per l’operazione superare il vaglio della Commissione Europea.

Ovviamente, dovrà essere un’impresa capace di stare sul mercato, di completare le bonifiche ed avviare – con una rigorosissima analisi dei suoi costi effettivi, ben al di là delle saccenti improvvisazioni di sedicenti esperti in materia – un processo di decarbonizzazione con l’introduzione a determinate condizioni di forni elettrici, e con l’impiego di preridotto di ferro, gas a costi accessibili e rottame che peraltro scarseggia a livello mondiale.

Un’altra impresa impossibile, indubbiamente: ma bisognerà impegnarsi per realizzarla e vincerla (in logiche di mercato) perché ci stiamo giocando il destino di un grande Paese manifatturiero e il futuro della più grande fabbrica del Paese che deve restare tale, qualunque cosa pensino in proposito tutti coloro che a vario titolo continuano da anni ad operare per farla dismettere in tutto o almeno in parte.



×

Iscriviti alla newsletter