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Mito ed enigma dell’imperatore Giuliano nella biografia di Benoist-Méchin

Se la storia ha un senso, questo, molto spesso, glielo conferiscono uomini eccezionali capaci di non farsi soggiogare dallo spirito dei tempi e dal gusto contingente delle mode. Questa notazione tanto più è vera se riferita alla specificità della cultura occidentale caratterizzata dal mito prometeico-faustiano che ha costituito la forza stessa di personalità nella realizzazione assoluta di un’idea.

Gli uomini del destino sono esistiti indiscutibilmente, e non per un qualsivoglia, ancestrale e recondito mandato superiore, ma piuttosto perché spinti dall’irresistibile e differenziata volontà di potenza in grado di imporsi sulle altre volontà spingendole all’accettazione di progetti che solo nella fase “intuitiva” sono propri e personali, ma che nel dispiegarsi, informando un’azione comune, ineriscono a tutto un popolo, ad una nazione e perfino ad una particolare civiltà.

Tali uomini sono stati classificati di volta in volta come conquistatori, condottieri, eroi: da Plutarco, Carlyle, Carcopino, le definizioni proposte sono state tante, spesso sprecate o fuori di misura. Resta incontestabile il fatto che intorno al loro nome si è costruita la storia del mondo e quella del pensiero, si sono giocati i destini dell’umanità.

Anche Alessandro il Grande, Pirro, Annibale, Giulio Cesare, Augusto, Adriano, Carlo Magno, e poi, sempre più rari come perle in un vasto Oceano, fino a Federico il Grande, a Napoleone da tutti ritenuti gli “eroi” sono stati ritenuti i protagonisti che in diversi periodi hanno scritto con le loro gesta i capitoli più esaltanti e funesti, più umani e feroci, comunque i più significativi della civiltà Occidentale.imperatore giuliano

 L'”APOSTATA” CHE NON LO ERA 

Fra queste figure – vere e proprie “vite parallele” che hanno avuto in ogni tempo il potere di suscitare autorevoli entusiasmi (ricordiamo quelli di Svetonio e Polibio, Tacito e Paolo Dacono, Dante e Machiavelli, Goethe Mommsen, Spengler e Montherlant) – la storiografia non specialistica non ha mai dato eccessivo peso a quella dell’Imperatore Flavio Claudio Giuliano, ingiustamente appellato con il limitativo e poco gratificante titolo di “Apostata”. Eppure della sua enigmatica opera e per taluni versi contraddittoria personalità, oltre che dei suoi scritti, si sono occupati tra gli antichi Ammiano Marcellino, Eusebio, Giamblico, Gregorio di Nanziano, Plotino e Sallustio, Porfirio, Tacito, Temistio e Teodoreto, solo per citare i più celebri; e fra i moderni l’Allarde e Bidez, Burchkardt e Chateaubriand, Gibbon e Negri, Ricciotti e Rostagni e Gore Vidal.

La biografia più completa e più affascinante è indiscutibilmente quella che ha scritto nel 1977 Jacques Benoist-Méchin, riproposta ora dalle edizioni Oaks: L’Imperatore Giuliano (pp. 383, € 24,00). Il saggio introduttivo è di Giovanni Sessa: Di un tramonto e di un possibile Altro Inizio, nel quale, molto opportunamente, riflettendo sui rapporti tra paganesimo e cristianesimo, il saggista scrive che essi non si possono risolvere in maniera rigida e manichea. “L’esperienza di Giuliano era centrata sull’antropologia tradizionale che fa dell’uomo, a differenza di ciò che accade nella fede del Cristo, lo sperimentatore del divino”. Era lo spirito del tempo. La millenaria tradizione che aveva retto una civiltà prima che l’irruzione della Rivelazione giungesse ad illuminare il mondo di nuova luce. Giuliano non può, dunque, essere considerato “apostata” solo per aver creduto in ciò che gli era stato insegnato e tramandato e di cui era convinto. Ma altri sono i motivi di interesse storico che inducono questa singolare figura di politico-sacerdote-filosofo-condottiero a suscitare interesse.

Jacques Benoist-Méchin è uno di quelli che nel mito dell’uomo-eroe ci credono e tanto più lo evidenzia, come nel caso di Giuliano, quanto più l’oggetto del suo studio è negato, calpestato, minimizzato dalla cosiddetta “storia maggiore”. La sua “simpatia” per Giuliano emerge fin dalla prime pagine del volume che significativamente inizia con la descrizione del leggendario sogno fatto dalla madre Basilina mentre era incinta del futuro Augusto: la donna aveva sognato di dare alla luce un nuovo Achille che avrebbe conquistato il mondo ristabilendo il culto degli dèi immortali della religione dei padri.

IL VIATICO IMPERIALE

Più che un aneddoto fu questo un viatico per Giuliano che ne segnò il destino prima nel corso di una giovinezza fatta di sofferenze, studio tenace e sopportazione paziente di ogni sorta di angheria, e poi nella maturità quando divenne condottiero valoroso, imperatore e pontefice massimo.

Figlio di Giulio Costanzo e fratellastro di Gallo, Giuliano nacque a Costantinopoli nel 331 d.C., i suoi nonni furono l’imperatore Costanzo Cloro e l’imperatrice Teodora. Se la storia della sua dinastia avesse avuto uno svolgimento normale, dopo la morte di Costanzo Cloro l’Impero sarebbe passato al figlio Giulio Costanzo e alla sua morte, al primogenito Gallo.

Il destino volle invece che Costanzo Cloro, già sposato con Teodora, si unisse in seconde nozze, con una domestica di nome Elena che generò Costantino. Dal giorno in cui divenne la madre del figlio dell’imperatore, Elena prodigò tutte le proprie energie nell’assicurare il trono a Costantino. Avversata dalla maggior parte delle famiglie pagane che non vedevano di buon occhio la sua umile estrazione, Elena cercò l’appoggio dei cristiani ai quali non parve vero di vedere un giorno uno di loro a capo dell’impero.

Nel 306, morto Costanzo Cloro, Costantino s’impadronì del potere con un colpo di mano e poco dopo, un po’ per consolidare il proprio prestigio e un po’ per far dimenticare l’oscurità delle sue origini, proclamò, con una atto senza precedenti, Augusta, cioè imperatrice, sua madre. Legato da un gran debito di riconoscenza verso i cristiani, ed in particolare verso i vescovi che ne avevano favorito l’ascesa, Costantino, in seguito alla vittoria riportata su Massenzio a Ponte Milvio il 2 ottobre 312 equiparò il culto i cristiano a quello degli antichi Dèi.

Alla sua morte, avvenuta ad Ancyra il 22 maggio 337, l’impero a seguito di alterne e burrascose vicende, passò al secondogenito Costanzo. Appena tre mesi dopo la sua ascesa al trono iniziò una spietata e crudele persecuzione contro i membri del ramo legittimo della dinastia imperiale, cioé Giulio Costanzo, Dalmazio e Annibaliano accusati pretestuosamente dal vescovo Eusebio di aver avvelenato Costantino. La notizia fatta circolare ad arte da Costanzo infiammò l’animo dei soldati, la stragrande maggioranza dei quali era cristiana, che ebbri di furore, trucidarono Giulio Costanzo ed i suoi familiari. Si salvarono Gallo e Giuliano. Il secondo, in particolare, ebbe modo di assistere a tutta la feroce vicenda e mai più avrebbe dimenticato il riflesso sinistro delle fiaccole sui muri, le larghe macchie di sangue sul pavimento, le urla strazianti dei suoi congiunti, le orrende mutilazioni dei cadaveri.

Venticinque anni dopo, nel Messaggio al Senato e al Popolo di Atene, ricordando quell’avvenimento, Giuliano scrisse: “Sfuggito dunque a quel pericolo presi di buon animo il cammino della casa materna. Del padre non mi restava più nulla, delle cospicue sostanze che egli doveva aver posseduto; non la più piccola zolla di terra, non uno schiavo, non un’abitazione”.

I FANTASMI DI ACHILLE E ALESSANDRO

I fantasmi di Achille e di Alessandro veleggiarono per tutta la sua giovinezza come immagini care di avi sciaguratamente dimenticati. Lo studio dei classici nel confino di Bitinia, sotto la guida del liberto Marconio, alimentò nel suo animo il culto dell’idea imperiale incarnata da Alessandro Magno: sopportò con grande forza d’animo le peregrinazioni costellate da minacce di morte e soprusi spiccioli: da Macello a Costantinopoli, da Nicomedia a Troia, da Como ad Atene. Col tempo si educò al culto misterico di Mitra e con l’aiuto del suo più caro amico, Massimo d’Efeso, fu iniziato alla religione di Elio. Dopo il rituale bagno nel sangue di un toro sgozzato, Giuliano risentì la voce che fanciullo lo rapì nella campagna di Nicomedia: “Tieni aperta la via!”

IMPERATORE A LUTETIA 

Il comando avrebbe finito per ispirargli ogni atto della sua esistenza. Avvertendo dentro di lui il significato della missione spirituale e politica che doveva portare a compimento aspettò attivamente il giorno in cui avrebbe avuto la possibilità reale di “fare ciò che deve essere fatto”. E quel momento non si fece attendere. La fortuna fu con lui e dopo tante sofferenze, dopo essere stato più volte sul punto di essere ucciso da Costanzo e salvato dalla di lui consorte Eusebiua, affascinata dal valore intellettuale e dalla delicatezza di sentimenti di Giuliano, inaspettatamente nel 335 fu nominato Cesare delle Gallie al posto del suo fratellastro Gallo mandato a morte dall’imperatore per tradimento.

Qui il giovane Cesare – aveva appena 24 anni – ebbe modo si farsi apprezzare come condottiero tenace e coraggioso nella spedizione contro gli Alamanni che sconfisse a più riprese inseguendoli fin dentro la Foresta Nera.

Negli anni anni un cui soggiornò a Lutetia, si guadagnò la stima e la simpatia dell’esercito. I soldati vedevano in lui un esempio, un modello da imitare, l’incarnazione di una stile di vita eroico ed ascetico al tempo stesso.

Con tali premesse non poterono ribellarsi all’ordine di Costanzo che ingiungeva al loro Cesare di abbandonare Lutetia e per tutta risposta l’acclamarono Augusto.

Il destino di Giuliano continuava a dispiegarsi secondo le profezie. Ora più che mai poteva iniziare a realizzare ciò a cui aveva pensato per tutta la giovinezza.

Nel 361 muore Costanzo. L’impero è nuovamente nelle mani di un solo Augusto. Giuliano torna trionfatore a Costantinopoli e senza perdere tempo pone mano alla riorganizzazione dell’esercito e dell’amministrazione pubblica,. Definisce le autonomie municipali, scrive lettere e trattati di teologia e soprattutto ristabilisce il culto degli antichi Dèi. I templi vengono restaurati. L’impero sembra esser avvolto dalla luce nuova sprigionata dal fervore operativo di questo giovane imperatore.

Ma Giuliano non si accontenta di tutto ciò. La via non è ancora percorsa fino in fondo. Il senso prometeico-faustiano che ha caratterizzato i suoi più grandi predecessori lo assorbe del tutto. L’antico sogno di Alessandro rivive in lui: riconquistare quel mondo che il Macedone unì sotto il suo imperio; dovevano essere sconfitti i nemici di sempre: i Persiani che in una luce lugubre da tempo immemorabile avevano atterrito gli occidentali. Contro di loro Giuliano preparò una meticolosa spedizione nella quale gli eserciti di Sapore, nel 363, vennero ripetutamente sconfitti nella pianura assolata di Maranga, dove nella stessa battaglia decisiva l’imperatore trovò la morte. Mentre comandava la carica, infatti, avvertì improvvisamente un dolore acuto al fianco destro e cadde a terra: un dardo si era conficcato nelle sue carni. Agonizzante, dopo aver tenuto un breve discorso ai suoi ufficiali, Giuliano gridò: “Ho sete!”. Gli portarono una tazza d’aceto diluito con acqua. Dopo alcuni secondi chiudeva per sempre gli occhi sul mondo. Aveva solo trentadue anni ed aveva regnato venti mesi.

La leggenda dice che i presenti videro uscire dal corpo dell’imperatore due anime: prima la sua, poi quella di Alessandro Magno.

Il sogno di Giuliano s’inceneriva laddove ebbe fine quello del Macedone. Ma il suo sogno di unire il genere umano per portarlo ad un superiore grado di civiltà era in realtà il disegno che la storia persegue da sempre per il bene dell’umanità.

La fine di Giuliano segna la cesura tra l’antico ed il nuovo. Tra la religione dei padri e l’avvento i del nuovo culto che avrebbe dato la spallata decisiva all’impero ricomponendone, tuttavia, le membra con un’altro spirito.

Non sarebbe più stato l’impero dei Cesari, perché diversi valori si sarebbe fatti strada. Giuliano cercò di far rivivere una civiltà senza riuscirci. Come scrisse Chateaubriand, “fu travolto dalle generazioni che pretendeva fermare: esse lo gettarono a terra e, nonostante la sua forza, lo calpestarono…”.

Ma la storia, fortunatamente, non sempre la scrivono i vincitori, spesso anche i vinti. E non di rado è quella che rimane.

Nel piccolo museo di Cluny a Parigi, di fronte alla Sorbona, in una sala circolare, si leva la statua, l’unica riconosciuta, dell’Imperatore Giuliano. E il simbolo di una presenza che, per quanto dimenticata o trascurata, vive nell’ombra di Lutetia. Il suo atteggiamento ieratico, per quanto non imponente, racchiude la “missione” che si era data: governare secondo i principi che gli erano stati tramandati, tollerare le nuove credenze purché non si opponessero allo Stato, restaurare l’ellenismo. La statua non poteva avere collocazione più opportuna. Venne portata a Parigi verso il 1787, come e da chi non si sa. La sua fattura è incerta, la mano che l’ha scolpita ignota. Il mistero resterà eterno, come quello della sua ascesa imperiale, della sua morte improvvisa, del suo sogno alessandrino infranto.

Jacques Benoist-Mechin, conclude il suo sontuoso racconto, rammentando che né Giuliano, né i suoi contemporanei potevano prevedere che dal disfacimento di un mondo sarebbe nato qualcosa di infinitamente più potente di quello morente. E da quelle rovine si sarebbe salvato lo spirito classico che avrebbe “contaminato” il cristianesimo rivivendo in esso. In un certo modo, la redenzione e la parziale vittoria dell’imperatore che null’altra colpa ebbe se non quella di restare fedele alla religione dei padri.

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