Le parole di Luigi Di Maio al ritorno dal vertice della coalizione anti Isis di Washington sono importanti e impegnative. Il ministro degli Esteri ha annunciato che la prossima riunione della coalizione si terrà in Italia nel 2020 motivando la scelta con l’importanza del problema libico. L’obiettivo, ha detto Di Maio, è ridurre le cellule terroristiche perché la Libia non preoccupa solo per i flussi migratori, ma anche per il forte rischio jihadista a pochissima distanza dall’Italia. Non meno importante è la lotta che l’Italia fa a chi finanzia gli estremisti islamici.
IN SINTONIA CON POMPEO
Sostenere che la questione terrorismo va affrontata anche nella parte meridionale del Mediterraneo, nell’Africa del Nord e nel Sahel, significa in sostanza condividere la richiesta fatta dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, aprendo i lavori della coalizione: allargare il raggio d’azione al di fuori di Siria e Iraq e impegnarsi anche nell’Africa Occidentale e nel Sahel. Per l’Italia significa soprattutto assumere una decisione di grande rilevanza politica e militare perché, a meno di non voler insistere solo sul fondamentale addestramento di truppe straniere, la lotta al terrorismo si fa con operazioni militari e di intelligence che possano contare su ben definiti contingenti.
ITALIA PROTAGONISTA
Altrimenti non si capirebbe perché Di Maio abbia sottolineato che “l’Italia sarà protagonista con tutti i Paesi coinvolti”: per esempio, il comando americano per l’Africa (Africom) bombarda miliziani dell’Isis nel sud della Libia e, più frequentemente, quelli di al Shabaab in Somalia e la Francia è fortemente impegnata nell’operazione Barkane dal 2014 nel Sahel. Essere protagonisti certe volte significa anche sporcarsi le mani.
IL NODO FOREIGN FIGHTER
Resta incerta invece la questione foreign fighter su cui Di Maio sostiene che bisogna “valutare caso per caso” e che comunque “non si possano rimpatriare tutti, anche se per l’Italia si tratta di poche decine”: in realtà, si tratta di poche unità, non decine, dopo l’estradizione di un combattente e il recente ritorno del figlio di una foreign fighter. La questione rischia di diventare urgente perché la Turchia sta mantenendo la promessa di espellerne diversi: dopo sette tedeschi e un britannico è stata la volta di uno statunitense.