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L’ambiguità di Roma in Libia fa male all’Italia. Parla Varvelli (Ispi)

“Capire quello che è successo al velivolo a pilotaggio remoto italiano precipitato ieri in Libia è molto complicato. Certo, il fatto che sia caduto sopra Tarhuna può essere un indizio: potrebbe essere stato abbattuto come dice la milizia haftariana Lna. Però da lì a dire che l’abbiano colpito volutamente perché era italiano mi pare difficile”. Arturo Varvelli, a capo del Mena Center dell’Ispi, parla con Formiche.net nei giorni intensissimi della preparazione del Med-2019, il forum internazionale sul dialogo per il Mediterraneo. Appuntamento dove la crisi libica sarà uno degli argomenti fondamentali.

Quando si parla di Libia in queste ore l’argomento caldo è di certo quanto accaduto al velivolo italiano ieri, precipitato in un’area molto delicata del conflitto civile libico. Tarhuna si trova appena fuori alla municipalità di Tripoli, a sud della capitale, ed è luogo di intensi scontri tra le milizie di Misurata e le forze che rispondono agli ordini di Khalifa Haftar, il signore della guerra dell’Est libico. Le prime difendono politicamente e militarmente il governo che l’Onu ha voluto a Tripoli, l’altro ha avviato dal 4 aprile una campagna per conquistare la capitale e rovesciare l’esecutivo onusiano (che va sotto l’acronimo Gna).

Tarhuna è una zona che già prima dell’offensiva haftariana era turbolenta e non fedele al Gna. In questo momento è importante, perché se i misuratini dovessero riuscire a sfondare il fronte e far indietreggiare i rivali, Haftar vedrebbe la sua offensiva bloccata. “È in corso una guerra anche tecnologica laggiù. Haftar ha dalla sua piloti e aerei emiratini, Misurata riceve l’aiuto della Turchia”, dice Varvelli. Ufficialmente il ministero della Difesa italiano ha detto che il velivolo stava effettuando una pattugliamento nell’ambito della missione Mare Sicuro, che però non prevede un approfondimento sull’entroterra libico così spinto: Tarhuna è distante qualche decina di chilometri dalle coste interessate dai flussi migratori.

La questione non riguarda tanto il drone nello specifico, quanto il ruolo dell’Italia sulla Libia. Per molti osservatori non è chiaro che traiettoria, che posizione e che politica stia seguendo Roma: è così? “L’Italia sulla Libia sta facendo finta di niente. Solitamente non sono critico con il nostro Paese, ma sembra che questa del far finta di niente sia diventata una linea di governo. Non abbiamo preso posizione nemmeno dopo i bombardamenti a Misurata”. Varvelli si riferisce agli attacchi contro il compound dell’aeroporto, all’interno del quale si trova un ospedale da campo italiano con trecento uomini tra personale medico e di sicurezza. Le bombe sono sganciate dai velivoli haftariani e cadono con frequenza settimanale a poche centinaia di metri dai militari italiani. Sono attacchi grossi, puntano le piste e gli hangar, cercano di fermare gli aiuti che arrivano al Gna.

E se dovesse succedere qualcosa tipo un errore di target come quello che è caduto al drone ieri? “Tenere lì i nostri soldati se non sei in grado di difenderli neanche dal punto di vista verbale è completamente inutile. Se decidi di stare lì, in uno dei luoghi strategici di una delle parti in guerra, devi essere pronto a schierarti. Devi muovere la politica in difesa del tuo impegno. L’ospedale è stato piazzato ai tempi della campagna contro l’Isis, ma quella è finita tre anni fa: ora la medical diplomacy italiana dovrebbe servire a dare supporto politico a Misurata, attore in campo che merita certamente rispetto e considerazione (le milizie della città-stato della Tripolitania hanno per esempio sconfitto l’Isis; ora sorreggono il governo Onu, ndr). Altrimenti tanto vale tirar fuori la gran parte del contingente e procedere per step fino a eliminarlo”.

Se si decide di essere una potenza totalmente neutrale, però, aggiunge Varvelli, “devi esserlo fino in fondo. L’Italia ha una posizione volutamente ambigua, ma per me non è per nulla produttiva”. Il rischio per l’esperto è perdere di rilevanza: nei giorni scorsi il governo di Tripoli ha riallacciato i rapporti con la Francia, dopo mesi in cui Parigi veniva accusata di spalleggiare in forma clandestina Haftar. C’è terreno da recuperare a questo punto? “Più che altro sarebbe il momento di alzare la voce, sfruttando anche il fatto che gli Stati Uniti stanno prendendo una traiettoria ben più assertiva, e indirizzata più contro Haftar. Siamo preoccupati che Haftar possa disturbare i nostri interessi, però non abbiamo capito che far finta di nulla è più controproducente che tenere una posizione secca”.

Washington ha chiesto ad Haftar di fermare l’offensiva. Il dipartimento di Stato ha diffuso la scorsa settimana una nota dura, forse la più diretta, dopo che da settimane si sta assistendo all’intensificarsi dell’assertività americana su un dossier che sembrava fuori dagli interessi statunitensi. E sul campo l’uomo forte dell’Est non sembra poi così solido. “Il supporto dei libici è molto scarso. Haftar non ha un contingente forte e compatto”, spiega l’analista italiano.

“E val la pena aggiungere un aspetto ulteriore che riguarda informazioni tornate interessanti di recente: il ruolo della Russia”. Varvelli di recente è stato a Mosca per incontri a livello di esperti e analisti. Ci spiega: “Secondo le mie informazioni, a Mosca c’è una certa dicotomia. Da una parte c’è il ministero della Difesa, che anche attraverso l’uso dei contractor militari di cui si è parlato nei giorni scorsi, sta cercando di spingere per una soluzione militare dietro ad Haftar. Anche per questo gli Usa si muovono. Dall’altra però c’è la sfera politica e quella della diplomazia: queste non vogliono che la Russia si vada a impelagare in uno scenario che non è un interesse primario. Col rischio oltretutto di far cadere il governo appoggiato dall’Onu”, ossia compromettendo la posizione internazionale del Cremlino.

Un punto, poi, sulla conferenza di Berlino, incontro con cui nelle intenzioni si dovrebbe mettere fine agli scontri, la cui data slitta continuamente. “Difficilissimo dire che succederà. Sembra che ci credano poco un po’ tutti, c’è un gran pantano. Alla fine temo che usciranno dichiarazioni formali, per proteggere tutte le parti coinvolte, che però perderanno ogni genere di valore nell’azione politica. Di fatto la situazione è bloccata, e credo che il pallino in questo momento sia molto in mano agli Stati Uniti, che se decideranno di spingere ancora di più allora potranno sbloccare i giochi”.

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