“Ero a Bruxelles, stavo incontrando l’allora segretario del Partito laburista inglese Neil Kinnock per affrontare la questione dell’internazionale socialista quando ci interruppero in modo agitato per farci vedere in televisione cosa stava accadendo a Berlino: il Muro stava venendo giù a picconate”. Achille Occhetto è stato l’ultimo segretario del Pci e il primo del Pds, l’uomo della Bolognina e della svolta che in quei giorni di novembre di trent’anni fa guidò il processo che di lì a un anno e mezzo circa avrebbe condotto alla trasformazione del più grande partito comunista d’occidente in una forza riformista e, più semplicemente, di sinistra. “Rivendico di aver immediatamente collocato la caduta del muro nella sua corretta prospettiva storica”, ha affermato in questa conversazione con Formiche.net Occhetto. Che poi ha aggiunto: “Subito dopo le prime picconate affermai che da quel momento in poi sarebbero mutati tutti i parametri che avevano contraddistinto fino ad allora i tratti fondamentali della geopolitica del pianeta. E dissi anche che non stava crollando solo il comunismo ma l’insieme del modo di fare politica del ‘900”.
Quale fu il suo stato d’animo in quel momento? Sollievo, nostalgia? Oppure cosa?
Bisogna ricordare che noi, già da un po’ di tempo, avevamo assunto una posizione molto critica su ciò che avveniva nelle repubbliche popolari. Che potesse crollare quel sistema era un fatto del tutto positivo ai miei occhi. Non si trattava della fine delle idee socialiste e comuniste nelle quali avevo creduto ma del crollo di una serie di regime autoritari e polizieschi. Già alcuni anni prima avevo sottolineato la necessità di una rivoluzione democratica in quei Paesi.
Ovviamente la caduta del Muro accelerò la trasformazione del Pci. In che modo?
Durante il XVIII congresso del Pci di pochi mesi prima (qui l’integrale dei lavori sul sito di Radio Radicale), avevo affermato che non avremmo cambiato il nostro nome sotto l’impulso di richieste esterne ma solo di fronte a eventi di portata storica. Come appunto fu la caduta del Muro. Era quello il momento giusto. Ma in quei giorni di novembre dissi anche un’altra cosa.
Quale?
Che la campana del nuovo inizio non stava suonando solo per i comunisti, ma per tutti. Lo dissi nell’incredulità generale. L’ondata che la caduta del Muro di Berlino generò ha sradicato tutte le forze politiche del ‘900. E se guardiamo al panorama politico italiano, a quello che ci circondava in quei giorni e a quello che ci circonda oggi ci accorgiamo che nulla, assolutamente nulla, è rimasto in piedi. Dopo la svolta anche a destra hanno sentito l’impulso di fare la stessa cosa, con la nascita di Alleanza nazionale. E poi la trasformazione della Democrazia cristiana nel Partito popolare italiano. Senza la Bolognina, mi lasci dire, non ci sarebbe stato neppure l’Ulivo.
In un’intervista rilasciata a Formiche in questi giorni Paolo Cirino Pomicino ha però sottolineato come gli effetti di politica interna della caduta del Muro riguardarono solo il Pci e non anche il cosiddetto Pentapartito. Perché la pensa diversamente?
La caduta del Muro di Berlino determinò il cambiamento della geopolitica internazionale ma anche del gioco politico, che in Italia si reggeva sul famoso scudo, la difesa dal comunismo. Con il crollo di quest’ultimo ha ceduto pure il sistema di potere costruito intorno al Pentapartito e fondato sulla conventio ad excludendum dei comunisti.
Però ci vollero ancora alcuni anni – e un inchiesta giudiziaria come Tangentopoli – prima che gli altri partiti dell’epoca collassassero. Sicuro che la caduta del Muro sia stato il fattore determinante?
Il fatto che il Pentapartito non sia crollato subito è la dimostrazione che, mentre in quei giorni noi capimmo immediatamente il carattere universale della caduta del Muro, le altre forze politiche italiane rimasero su posizioni cieche. In quei giorni, ad esempio, Giulio Andreotti dichiarò con una delle sue classiche battute di amare a tal punto la Germania da preferire che ce ne fossero due. Io, al contrario, affermai subito che si apriva una strada nuova per l’integrazione europea e per l’unità tedesca.
In questo contesto, pochi anni dopo, ci fu appunto Tangentopoli. Un domino che rese impossibile resistere al sistema politico italiano dell’epoca?
Penso che Mani Pulite sia scoppiata proprio perché era cambiata la geografia del mondo. Anche quella inchiesta dimostra che qualcosa di radicale stava mutando per sempre. Certo, dopo la svolta della Bolognina pensavamo che si sarebbe aperto di lì a poco un rapporto nuovo con i socialisti. Come d’altronde confermano i colloqui di quei mesi con Claudio Martelli. Mani Pulite è stata una mina sotto questa possibilità perché ha praticamente distrutto il partito socialista e aperto una fase totalmente nuova. E ha prodotto l’effetto, certamente non voluto dai giudici, di aprire la via al populismo, che venne raccolto per primo da Silvio Berlusconi.
Il Pd è l’erede di quel Pci che il 12 novembre del 1989 si avviò alla cosiddetta Svolta della Bolognina?
In parte sì e in parte no. Nei giorni della svolta dichiarai che era caduto un muro non solo di pietra ma anche ideologico. I partigiani socialisti, comunisti e cattolici che avevano combattuto insieme per la libertà in Italia furono divisi da quel muro. Ma dopo la caduta le forze democratiche hanno potuto ritrovare un cammino comune. Quella era la strada indicata alla Bolognina che in parte è stata raccolta dal Pd.
Perché no invece?
Perché la nascita del Pd è avvenuta con una fusione a freddo che è alla base di tutte le sue successive difficoltà. Non si accolse l’altra indicazione che ponemmo già dalla svolta: quella di una costituente fondata su una profonda contaminazione ideale e politica per dar vita a una nuovo partito. Una sorta di primarie delle idee. Non si è mai fatto e siamo ancora in attesa che accada.
A 30 anni di distanza, a suo avviso, qual è la lezione che la sinistra deve trarre dalla caduta del Muro?
30 anni fa abbiamo fatto la svolta per fare i conti con il crollo del comunismo. Oggi è necessaria un’altra svolta per fare i conti con la crisi delle sinistre, sia quelle moderate che quelle alternative. Ritengo che la strada da percorrere, almeno nello spirito, continui a essere, naturalmente in parte, quella indicata in quei giorni. Ovvero, di una riorganizzazione complessiva del riformismo e di tutte le forze democratiche che non deve fermarsi alla mera ingegneria organizzativa come molte volte sento dire ma che deve prendere le mosse, direi, da una nuova svolta progettuale della sinistra di tutta la democrazia militante. In questo sta la differenza rispetto ad allora: la novità è che l’Italia e l’Europa si trovano di fronte a nuova ondata di destra alla cui base c’è una crisi della democrazia e della sovranità. Si tratta di tematizzare questo problema in un contesto di alleanze estremamente ampio.
Intende l’alleanza strutturale tra la sinistra e i cinquestelle di cui tanto si sta discutendo in questa fase?
Quando parlo di alleanza ampia – come dissi allora – non mi riferisco tanto alle sigle ma alla necessità di porre mano a quella convenzione delle idee della sinistra italiana. Se i cinquestelle si dichiarano di sinistra sì, altrimenti non penso che possano dare un contributo rilevante nella battaglia a difesa della democrazia.