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Afghanistan, perché gli occhi di Washington sono tornati su Kabul. Parla Bertolotti

Stamattina all’alba un veicolo bomba ha colpito un gate della grande base di Bagram, nell’Afghanistan orientale, mentre stava rientrando un convoglio statunitense. Non ci sono state vittime americane. Il Pentagono dice che la base (la più grande delle forze alleate nel paese) è ancora sicura, ma si tratta dell’ennesimo episodio del genere nell’ultimo anno. E arriva in una fase delicata: qualche mese fa sembrava che lo sforzo negoziale degli Stati Uniti potesse portare buoni frutti attraverso un accordo con i Talebani. L’organizzazione jihadista contro cui è intervenuta la Nato dopo l’attentato del 9/11 — quando i Talebani erano al potere in Afghanistan e garantivano protezione ad al Qaeda, che riconosceva nel capo Mullah Omar la Guida dei fedeli — era sul punto di accettare una serie di punti che l’amministrazione Trump aveva stilato. La Casa Bianca è ansiosa di chiudere un accordo storico con in nemici dell’America — siano i Talebani, l’Iran o la Corea del Nord — che Donald Trump vorrebbe usare come eredità da giocarsi alle elezioni del prossimo anno.

E invece tutto è saltato, anche se i  contatti ultimamente sono stati riattivati. Per Trump è importante portare a casa i propri militari, perché rientra tra le promesse elettorali del 2016. E il fronte afgano sotto questo punto di vista è un argomento caldissimo. L’attentato arriva a pochi giorni dalla pubblicazione dei cosiddetti “Afghan Papers”, dozzine di informazioni e documenti riservati ottenuti dal Washington Post, in tre anni di battaglie legali ai sensi del Freedom of Information Act (FOIA).

Resi pubblici il 9 dicembre, hanno sostanzialmente una sintesi: il governo statunitense si è reso conto da molto tempo che la guerra in Afghanistan — la più lunga della storia americana — è impossibile da vincere. Ma ha mentito per anni ai propri cittadini. Tutti i dati usciti erano stati raccolti come revisione dal Sigar, l’ufficio di monitoraggio sul conflitto, e adesso confermano quella che Trump chiama “endless war”. Una guerra senza fine che secondo la sua visione del mondo rappresenta un costo enorme che gli Usa non possono più sostenere (soprattutto perché non dà, a suo modo di vedere, ritorni). Un conflitto costato 934 miliardi di dollari, in cui sono morti ad oggi oltre 2000 soldati americani, e in totale più di 150 mila persone, di cui 43 mila civili.

Dalla mole e dal contenuto delle rivelazioni scottanti pubblicate, i documenti che il WaPo ha rivelato sull’Afghanistan ricordano i “Pentagon Papers” sul Vietnam, e mettono la presidenza sotto pressione. “I fatti riportati dal Washington post confermano ciò che noi analisti, pochi a dire il vero, diciamo dal 2009. Che la guerra in Afghanistan fosse persa, personalmente, lo sostenevo già nel 2009 nelle analisi per il CeMiSS”, commenta con Formiche.net Claudio Bertolotti, già capo sezione contro-intelligence della Nato in Afghanistan, docente e ricercatore associato preso l’Ispi, direttore START InSight e autore di “Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga” (ed. START InSight, 2019).

L’analista italiano spiega che “di fatto l’Afghanistan è un paese politicamente incapace di trovare un equilibrio: le dinamiche sono etniche e tribali, e così l’accesso alle forme di potere. Oggi, dopo oltre due mesi dalle elezioni presidenziali, non sappiamo ancora chi le abbia vinte. Esattamente come nel 2014, quando gli afghani dovettero accettare la spartizione del potere tra i due contendenti (Ashraf Ghani e Abdulla Abdullah)”.

Una crisi di carattere istituzionale che rende impossibile la stabilizzazione, con un’economia disastrata e dipendente dagli aiuti stranieri. “L’unico settore in forte espansione è quello degli oppiacei. Oggi dalla produzione alla lavorazione del prodotto finito, l’eroina, che copre il 92 per cento della richiesta globale”, commenta Bertolotti. In questo contesto i Talebani stanno crescendo di nuovo e hanno attualmente sotto il loro controllo circa il 42 per cento del territorio: quasi tutte le aree rurali e le fasce periferiche, ma anche alcune zone urbane (per esempio Kunduz).

“Le forze della NATO non escono dalle loro basi e il supporto alle forze afghane si limita all’affiancamento a livello di pianificazione ma non di condotta operativa: d’altronde è una guerra tra afghani e l’Alleanza atlantica non può più dare un contributo significativo Le forze statunitensi sono concentrate nella condotta di operazioni con forze speciali e attacchi mirati con i droni: gli obiettivi sono i comandanti intermedi dei talebani (al fine di fare pressione in senso favorevole a un accordo negoziale) e agli obiettivi riconducibili allo Stato islamico in Afghanistan e ad al-Qaeda”, aggiunge Bertolotti.

È questo il quadro in cui uno dei massimi esperti internazionali del dossier inserisce il “dialogo negoziale” (“non chiamiamolo accordo di pace”, sottolinea) tra gli Stati Uniti e i talebani. “Un dialogo di fatto mai interrotto; iniziato nel 2007, intensificato nel 2012 con l’apertura dell’ufficio politico talebano a Doha in Qatar e ripreso in maniera decisa nel 2019.Temporaneamente sospeso a settembre, per ragioni di opportunità evidenziate dal Pentagono e accettate da Trump, e attualmente riavviato”.

Gli obiettivi delle parti? “Washington deve uscire dalla lunga guerra persa, e deve farlo convincendo l’opinione pubblica interna (e dunque l’elettorato) del successo di tale scelta. Di fatto però è intenzionata a mantenere una presenza permanente all’interno delle basi strategiche in gestione agli Stati Uniti fino a tutto il 2024 in base al Bilateral Strategic Agreement”.

E i Talebani cosa vogliono, e ottengono con un’intesa? “Loro vogliono prendere il potere, e lo faranno, con il tempo, passando attraverso la revisione (abrogazione) della costituzione e dei diritti in essa contenuti. Potere che consentirà a loro di spartire buona parte delle royalties derivanti dal transito della pipeline TAPI (quando vedrà la luce)”.

E il governo afgano in tutto questo che ruolo ha? “Il governo afghano è, purtroppo, marginalizzato per decisione dei due interlocutori e non ha voce in capitolo”.

C’è anche un contesto ulteriore, diciamo di carattere geopolitico con peso regionale? “Esattamente. In tutto ciò si inseriscono gli attori regionali (e non solo): Cina, Iran, Pakistan e Russia a loro volta impegnasti in tavoli negoziali bilaterali e indipendenti con i talebani. E questo è un altro successo del movimento che fu del Mullah Omar: dividere i contendenti esterni, indebolendoli, e imponendo le proprie pretese. Alla fine saranno loro a uscirne vincitori”.


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