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La sovranità tecnologica non passa per la Cina. Da Washington parla Small

Sicurezza e sovranità possono, anzi devono andare di pari passo. Andrew Small, Senior Transatlantic Fellow del German Marshall Fund, è uno dei più apprezzati e navigati esperti di Cina negli Stati Uniti e in Europa. Ha seguito passo dopo passo la lenta e inesorabile avanzata del Dragone nel Vecchio continente, sia da Washington sia da Bruxelles, ed è giunto a una conclusione. Schermare le infrastrutture strategiche europee, a cominciare dalla rete 5G, da intrusioni di aziende cinesi a contatto con il governo comunista è un attestato, non una cessione di sovranità.

Per il Copasir in Italia esiste un rischio 5G e le aziende cinesi possono diventare un pericolo per la sicurezza nazionale.

Le conclusioni sono condivisibili. L’Italia ha già messo in campo importanti strumenti legislativi, il rafforzamento del golden power sulla rete 5G ha in parte rassicurato il governo americano. Ora serve un passo in più.

Escludere le aziende cinesi dalla rete?

Gli Stati Uniti non chiedono un’esclusione totale e pubblica e un rimpiazzo immediato delle compagnie cinesi, ma una chiara transizione dalla tecnologia Huawei man mano che viene installata la banda ultralarga, l’approccio politico è un problema secondario. L’attenzione aumenterà anche in altre aree, dai porti alle tecnologie sensibili come quelle aerospaziali. Per il momento comunque non sembra che l’Italia abbia optato per una totale rottura con la normativa europea.

L’Europa è consapevole della posta in gioco?

I Paesi europei hanno diversi livelli di esperienza, esposizione e abilità nel confronto con la Cina ma dentro all’Ue c’è sicuramente una sufficiente consapevolezza dei rischi, soprattutto tra funzionari ed esperti. Forse non ce n’è stata abbastanza durante la crisi dei debiti sovrani, quando la Cina ha acquistato parti importanti delle infrastrutture critiche europee e la nuova Via della Seta era appena stata concepita.

Oggi è in via di costruzione, anche in Europa. Un rischio o un’opportunità?

Vedo troppa leggerezza sulle implicazioni che – ad esempio – può avere la presenza del governo cinese nelle infrastrutture portuali europee. In aree ancora più complesse, come le infrastrutture digitali, l’equivoco sulla presenza cinese può essere ancora più pericoloso.

Perché, secondo lei, c’è tanta leggerezza su questi temi?

Spesso i politici soppesano i rischi senza prendere in considerazione i moniti di esperti e burocrati, per ragioni di opportunità. Qualcosa per fortuna sta cambiando: il tema della Cina non è più quello di un lontano Paese asiatico, abbiamo visto Parlamenti in Italia, Germania, Olanda e altri Paesi europei aumentare lo scrutinio sulle attività cinesi.

Il rinnovato attivismo cinese in Italia può minare i rapporti con gli Stati Uniti?

Gli Stati Uniti stanno trasformando la questione cinese in uno dei più importanti dossier delle relazioni transatlantiche, non era mai successo. Il 5G è la cartina di tornasole di questo nuovo corso. Washington ha prestato grande attenzione ai cambiamenti nei rapporti fra Italia e Cina nell’ultimo anno e continuerà a farlo.

Small, siamo sicuri che non sia solo politica?

L’Europa dovrebbe giungere alle sue conclusioni senza “aderire” alle indicazioni dall’esterno. Fra queste dovrebbero rientrare le implicazioni delle scelte europee sulla sicurezza dei rapporti con i suoi principali alleati militari. Certo, se ci fossero forti ragioni economiche e tecnologiche per scegliere un’opzione cinese queste remore potrebbero essere messe da parte. Al momento, tutto punta nella direzione opposta.

Perché il 5G è un problema?

I rischi per la sicurezza del 5G sono molto più alti rispetto al 4G. Visto il ruolo centrale che questa rete giocherà “nell’Internet of things” la distinzione fra “edge” e “core” della rete conta molto meno. Non si tratta solo dell’installazione di backdoors e del travaso di dati che abbiamo visto, ad esempio, da parte di aziende cinesi nel quartier generale dell’Unione Africana, ma dell’entrata della Cina nella colonna spinale delle nostre economie.

Quindi?

Se avessimo garanzie che le compagnie cinesi fossero disposte a disubbidire alle istruzioni del governo comunista o che la Cina non utilizzi la coercizione economica, il problema non si porrebbe. Ma le contromisure che Pechino sta minacciando in Europa per il 5G dimostrano sia i profondi rapporti fra Huawei e il partito-Stato sia la volontà di utilizzare strumenti economici come mezzo di pressione.

È anche vero che la tecnologia Huawei costa meno. Questo dovrà pur contare.

I prezzi ridotti di Huawei sono il riflesso di una posizione privilegiata che le è garantita nel mercato cinese e dei sussidi che il governo cinese elargisce alle aziende nazionali. L’Europa deve decidere se concedere in premio i suoi più grandi contratti alle sue stesse aziende, Nokia e Ericsson, oppure premiare questo sistema produttivo a spese dell’industria europea.

La nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha parlato di sovranismo tecnologico.

Esatto. L’Europa sostiene di voler raggiungere l’autonomia tecnologica, il 5G è una di quelle poche sfere dove le aziende europee sono alla guida. Eppure l’industria delle telecomunicazioni è stata sottoposta a forti pressioni per molti anni. Di questo passo è difficile che sopravvivano alla competizione globale.

Ricapitolando: si tratta di un problema reale e non solo dei rapporti con gli Stati Uniti?

Chiariamo una cosa: nessuno di questi problemi di per sé ha a che vedere con gli Stati Uniti. Ovviamente ci sono implicazioni per la condivisione di intelligence e informazioni sensibili, la mobilitazione in casi di crisi, l’impegno statunitense in Europa – ma la maggior parte dei problemi economici e di sicurezza si possono affrontare da una prospettiva europea piuttosto che tramite il prisma della Nato.

Però se gli alleati dovessero contraddire le indicazioni di Trump ci sarebbero ripercussioni, o no?

Il libero movimento di componenti, ricercatori, finanziamenti potrebbe incontrare restrizioni se questi Paesi, o singole aziende, dovessero stringere ulteriori partnerhsip tecnologiche con la Cina ritenute inaccettabili per gli Stati Uniti.

È noto a tutti che i rapporti fra Cina e Stati Uniti sono ai loro minimi storici. Il governo americano ha annunciato il raggiungimento di una “fase uno” dei negoziati commerciali. Una tregua?

Una nuova escalation sul fronte commerciale prima delle elezioni presidenziali è poco probabile, anche se al momento non c’è stata una sostanziale diminuzione delle tariffe. Gli Stati Uniti stanno premendo per una restrizione dei rapporti con la Cina nel campo tecnologico. Molte delle decisioni cruciali in quest’area sono prese dal settore privato, che deve fare i conti con i rischi derivanti dall’incertezza che aleggia sui dazi e le restrizioni tecnologiche. La fase uno dell’accordo non risolve nessuno dei problemi strutturali con la Cina. Tutto è rimandato al 2021.

Molti accademici e analisti ritengono che quella in corso fra Washington e Pechino sia una nuova Guerra Fredda. Concorda?

C’è una crescente contesa politica fra le due sponde, anche se il paragone con la Guerra Fredda non regge granché, soprattutto per la profondità dei rapporti economici fra Cina e Stati Uniti e la natura ideologica della competizione. Oggi assistiamo piuttosto a uno scontro multidirezionale fra due differenti teatri geografici dove gli elementi di rivalità sono in aumento e quelli di cooperazione stanno diminuendo a vista d’occhio. È una guerra per il potere che al tempo stesso mette in dubbio il sistema valoriale occidentale.

C’è chi vede un progressivo riavvicinamento fra Stati Uniti e Russia in questa sfida con Pechino.

Ci sono pochi sintomi di un simile movimento. Si può semmai sostenere che le relazioni fra Cina e Russia si sono costantemente rafforzare negli ultimi anni, anche in aree che analisti e accademici ritenevano impossibili. Entrambe sono molto più preoccupate degli Stati Uniti – e, da una prospettiva ideologica, del mondo liberale, di quanto non lo siano una dell’altra. La Cina fa attenzione a non urtare le sensibilità dei russi, i suoi piani di espansione non si manifestano con modalità che si sono già rivelate problematiche per Mosca – come in Asia Centrale – dove le rispettive rivendicazioni spesso si scontrano.

Quindi un asse Washington-Mosca è impensabile?

Credo che la Russia possa più facilmente raggiungere i suoi obiettivi come partner minore della Cina. Sebbene rimangano sospetti fra i due sistemi politici, finché le leadership al Cremlino e allo Zhongnanhai rimarranno le stesse, sarà difficile vedere qualsiasi riavvicinamento.

Chi sta pagando il prezzo più alto nella guerra tecnologica fra Cina e Stati Uniti?

Nel breve periodo la Cina ha più da perdere. Se gli Stati Uniti saranno in grado di restringere l’accesso della Cina alle cosiddette “tecnologie di sbarramento”, impossibili da acquistare altrove, colpiranno le capacitàcinesi in vari settori. Pechino cercherà sicuramente di replicare queste tecnologie in casa propria, un processo già in corso. Anche gli Stati Uniti hanno di fronte a sé molte sfide, a partire dalla perdita di valore, talento, soldi dovuta al disaccoppiamento dall’ecosistema tecnologico cinese e altri partner americani.

In mezzo c’è la Silicon Valley, che non è entusiasta del nuovo corso Trump.

Le aziende della Silicon Valley beneficiano dai ricavi cinesi – che permettono di investire in ricerca e sviluppo – così come da un importante bacino di talento cinese. Queste compagnie peraltro già beneficiano dei centri di produzione di alta qualità in Cina e si aspettano di trarre vantaggio dalle ricerche condotte in queste strutture.

Un bel problema per la Casa Bianca. Cosa sceglierà: sicurezza o sviluppo?

Ci sono diversi trade-offs di fronte agli Stati Uniti, e questo spiega perché sia così difficile per il governo assumere decisioni nette sulle restrizioni tecnologiche. È tuttavia opportuno ricordare che il “disaccoppiamento” tecnologico ha avuto inizio in Cina, che ha cercato di creare un internet cinese separato schermato dalla cosiddetta “Grande muraglia”. Per un po’ di tempo Pechino ha aperto il suo mercato alle tecnologie e gli investimenti stranieri mentre montava barriere in casa propria. Ora il tavolo si è ribaltato: i Paesi sviluppati, non solo gli Stati Uniti, hanno perso la pazienza.

 

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