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Così Renzi ha congelato (a sorpresa) la riforma elettorale

Fra i regali che il governo rossogiallo si troverà sotto l’albero di Natale non ci sarà, con ogni probabilità, la nuova legge elettorale. Alla vigilia del vertice di maggioranza presieduto dal ministro pentastellato ai Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà al Senato questo giovedì sembrava davvero fatta. E invece una riunione che doveva essere dedicata alla definizione dei dettagli si è trasformata nell’ennesimo stallo. A mettere tutto in stand by Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva si era mostrato convinto del sistema proporzionale “spagnolo” che piaceva al Pd e pure ai Cinque Stelle. Un proporzionale corretto, con una soglia di sbarramento implicita.

Qui sono nati i dolori. Perché i renziani, che alla riunione serale hanno inviato addirittura Maria Elena Boschi, a dimostrazione di quanto conti la partita, hanno cambiato idea. E al tavolo delle trattative hanno difeso un sistema proporzionale con soglia nazionale del 5%. Come da aspettative, la proposta ha ricevuto il sì di Pd, M5S e Autonomie, ma un netto no da Leu, che da settimane spingeva a ribasso, verso una soglia del 3%, contando sul benevolo supporto di Iv. Tutto da rifare. La delusione è leggibile sul volto di Loredana De Petris, che uscita dalla stanza ammette: “Il punto che guida le nostre trattative è una soglia più bassa, perché una soglia del 5% secondo noi non rappresenta l’Italia oggi”.

I tempi si allungano e il dossier resta blindatissimo, anche i tecnici di Palazzo Chigi ne sono tenuti fuori. Il faccia a faccia nella maggioranza si conclude con due proposte parallele che raccolgono il consenso di quattro gruppi su cinque e neanche l’ombra di un accordo. Rimane in campo il sistema “simil-spagnolo”, con soglie naturali a 36 e 19 circoscrizioni, che adesso non piace più a Renzi. Dall’altra c’è il sistema “alla tedesca”: soglia nazionale e sbarramento al 5%, che però vede in trincea Leu. Per il Pd la prima scelta rimane un sistema a doppio turno. Proposta destinata a rimanere isolata. Come ha spiegato a Formiche.net il presidente del Cise (Centro italiano per gli studi elettorali) Roberto d’Alimonte, che sul doppio turno ci ha costruito una riforma poi bocciata dalla Consulta, l’Italicum, né i Cinque Stelle né tanto meno la Lega sarebbero disposti ad accettarla. I primi vedrebbero venir meno il ruolo di “ago della bilancia” della politica italiana, perché sarebbero costretti a definire prima del voto l’alleanza di governo. Quanto ai leghisti, il timore che sibila fra le truppe di via Bellerio è di fare la fine di Marine Le Pen, che nel 2017 ha fatto il boom di voti e al secondo turno si è vista tutto il sistema partitico o quasi coalizzato contro.

Il prossimo passo è sedersi a un tavolo con le opposizioni, come da impegni fissati nel documento di maggioranza. Anche qui nelle ultime settimane ci sono state non poche capriole. Una su tutte quella della Lega, che ancora attende dalla Corte di Cassazione il verdetto sul quesito referendario per un maggioritario “all’inglese” depositato dal senatore Roberto Calderoli e al tempo stesso ha aperto al proporzionale. Parola di Matteo Salvini, che continua a ripetere il motto “chi vince governa” senza chiarire come si applichi alla riforma proporzionale in cantiere nella maggioranza. E pensare che solo a settembre nel centrodestra Silvio Berlusconi era nel mirino dei leghisti per i suoi dubbi sulla riforma per il maggioritario. L’impressione generale è che tutti, anche la Lega, vogliano tenersi le mani libere in vista di un voto anticipato.

Sullo sfondo incombe la riforma sul taglio dei Parlamentari, che il 12 gennaio entrerà in vigore. A meno che entro quella data non si trovino 64 senatori pronti a firmare per il referendum confermativo lanciato dai Radicali. A quel punto il rischio che tutto crolli si farebbe concreto. Al momento a palazzo Madama manca una decina di firme. Chissà che i tre senatori grillini passati alla Lega dopo il voto sul Mes, Stefano Lucidi, Ugo Grassi e Francesco Urraro, non sposino anche questa causa.

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