A conclusione dell’incontro dei capi di Stato e di governo di Londra, la prima impressione è che Emmanuel Macron, pur non volendo, abbia rafforzato e unito l’Alleanza Atlantica. Se si leggono le dichiarazioni di Donald Trump di ieri, nello stile concreto tipico del presidente americano, le critiche per gli alleati sono state rivolte solo a Macron e a “solo un Paese”. Trump ha addirittura affermato di essere un “big fan” della Nato, mentre una difesa a spada tratta dell’Alleanza è arrivata persino dalla Turchia. Si registra dunque una forte unità, seppur con differenze altrettanto forti che dipendono dall’esigenza di mettere sullo stesso tavolo un espresso ristretto italiano e un lungo caffè americano. Il segreto, che spetta alla gestione del segretario generale, è trovare il giusto mix, talora con l’adeguata dose di zucchero per ottenere il consenso generale.
L’Alleanza è apparsa pertanto unita nei suoi 29 membri più la Macedonia del Nord, che ha partecipato di fatto come Paese membro sebbene formalmente non lo sia ancora per il solo problema burocratico connesso alle elezioni spagnole che ne hanno rimandato il processo di ratifica. Al presidente Macron va quindi l’inatteso merito di aver rafforzato la solidarietà della Nato, ponendo l’accento sulla dimensione politica dell’Alleanza. Caratteristica insita nel Dna della Nato è sempre stata quella di poggiare su due gambe: una politica e l’altra militare. Talora l’Alleanza ha camminato e sviluppato più l’una dell’altra. Così durante la Guerra fredda si è sviluppata maggiormente la gamba militare. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la Nato ha potuto recuperare la sua vocazione politica, mentre negli ultimi anni, tra missioni ed esercitazioni, è tornata forse a prevalere quella militare. Ora torna al centro la questione del riequilibrio tra le due gambe, con il rilancio di una riflessione politica dell’Alleanza in un momento storico in cui occorre procedere con un cambio di passo e maggiore agilità per far fronte alle nuove e più complesse sfide dell’attuale scenario di sicurezza.
Nella dichiarazione finale del vertice londinese si parla non a caso di una “riflessione” strategica, e non di “revisione”. Significa che la prospettiva strategica rimane quella di sempre, condivisa da tutti, ma che si richiede una riflessione costante e aggiornata della sua dimensione politica, per poterla attuare in pratica ancor più efficacemente. Il segretario generale è infatti stato incaricato di mettere insieme un gruppo di esperti che, nel giro di un anno o poco più, condurranno tale riflessione, anche attraverso il coinvolgimento di autorevoli rappresentanti del mondo diplomatico e militare, e con l’auspicabile contributo di pensiero dei think tank e di esperti che potranno offrire al Consiglio atlantico l’approfondimento richiesto in modo poco elegante da Macron.
La grande novità è comunque la presenza della Cina, per la prima volta, in una dichiarazione dell’Alleanza. Come ha spiegato il segretario generale Jens Stoltenberg, ciò non accade perché la Nato ha deciso di spostarsi verso Pechino, ma piuttosto perché la Cina è diventata attore strategico di primaria importanza anche per i temi di sicurezza, oltre che per l’economia (di cui comunque non si può non tener contro). Ciò vale soprattutto in termini di protezione delle nostre infrastrutture critiche, ad esempio le telecomunicazioni. Di particolare interesse per l’Italia anche il contesto di infrastrutture critiche sommerse e di resilienza. Occorre inoltre tenere presente che la Cina non solo cintura l’Europa, muovendosi dall’Africa ai porti del Pireo e di Genova, ma che è ormai in grado di operare con determinazione anche oltre l’atmosfera. Proprio qui c’è l’altra grande novità del vertice di Londra: lo Spazio viene certificato quale quinto dominio operativo per la Nato.
Un po’ più complesso appare il discorso relativo al budget militare cinese, il secondo al mondo dopo quello statunitense, adottato per questo tra le ragioni della trattazione della Cina all’interno dell’agenda del vertice. Si sottovaluta forse un aspetto: gli outcome delle spese che Washington e Pechino dedicano rispettivamente alla difesa sono difficilmente comparabili. Il budget statunitense è difatti ben più trasparente di quello cinese, su cui si sa davvero molto poco quando si parla, ad esempio, degli investimenti sulla componente navale. In più, un dollaro speso negli Stati Uniti non è uguale a un dollaro (o l’equivalente in yuan) speso in Cina, capace di produrre un output decisamente maggiore.
Infine, la nota preoccupante del vertice di Londra: il dossier libico. Se ne è discusso poco, ma soprattutto l’Italia è rimasta ai margini a fronte di una presenza più forte di Paesi come Germania e Turchia che stanno acquisendo un peso determinante a scapito dell’Italia. Da qui a gennaio, quando è prevista la conferenza sulla Libia a Berlino, occorrerà un maggiore impegno e recuperare terreno.