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Perché i giallorossi non abboccheranno all’amo di Salvini. L’analisi di Capozzi

La proposta di istituire un “comitato di salvezza nazionale” lanciata sabato scorso da Matteo Salvini all’attuale maggioranza di governo si inserisce all’interno di una rimodulazione in senso “moderato” dell’offerta politica intrapresa da qualche tempo da parte del leader della Lega.

Una rimodulazione che risponde da un lato all’esigenza tattica di schivare i continui tentativi da parte della sinistra di delegittimare la destra sovranista accusandola di estremismo, razzismo, fascismo e simili, mantenendo una presa sui settori di elettorato non pregiudizialmente schierato – innanzitutto in funzione della fondamentale scadenza delle elezioni regionali emiliano-romagnola.

Ma, dall’altro, è anche funzionale al disegno di sfruttare le crescenti, sempre più profonde lacerazioni nella coalizione giallo-rossa per cercare di minare l’unico fattore determinante che ancora la tiene unita, cioè la paura di andare alle urne, e di favorirne una disarticolazione attraendone alcune componenti (in primo luogo, naturalmente, Luigi Di Maio e Matteo Renzi) in una soluzione “ponte” (o “zattera”)  che li liberi dalla leadership di Giuseppe Conte, ritagliandosi una posizione di vantaggio per scenari futuri.

La ventilata disponibilità leghista a discutere di una legge elettorale sostanzialmente proporzionale (con l’unico caveat della salvaguardia di un rapporto chiaro tra risultati elettorali e governabilità), e le suggestioni addirittura di una possibile grande calizione guidata da Mario Draghi evocate dal “pontiere” Giancarlo Giorgetti, rendono – nelle intenzioni dell’ex ministro dell’Interno – ancora più allettante la prospettiva di un’intesa per alcuni possibili interlocutori.

Occorre però chiedersi quante possibilità concrete di successo abbia a breve, per citare Ocone, la “mossa del cavallo” leghista. E poi se nel medio periodo essa possa favorire l’obiettivo di portare la coalizione di centrodestra al governo dopo una inequivocabile vittoria elettorale.

Mi pare che la risposta ai due questiti debba essere sostanzialmente negativa, salvo rivolgimenti finora non ipotizzabili. È verosimile infatti che, pur nelle profonde divisioni tra loro e all’interno delle loro formazioni, Pd, 5Stelle e Italia Viva continueranno a ritenere per ora che il loro tentativo di ritardare il più possibile le elezioni politiche abbia maggiori possibilità di successo finché le leve del governo rimarranno tutte nelle loro mani, piuttosto che essere condivise con la Lega.

Le forze della coalizione giallorossa sperano infatti ancora di sopravvivere, magari con il supporto di qualche poco impegnativo “responsabile” di estrazione berlusconiana, fino a quando l'”onda lunga” salviniana si sgonfierà sotto la pressione convergente di media amici, movimenti di piazza come quello delle “sardine” o di qualche inchiesta giudiziaria. Qualcuna di esse potrà cambiare idea soltanto davanti a eventi drammatici, come appunto un’eventuale sconfitta alle regionali emiliane, o sondaggi talmente negativi da far preferire un salto nel buio ad un’agonia terminale.

In compenso, il prolungamento oltre un certo limite di un approccio “dialogante” a oltranza potrebbe far perdere a Salvini una parte dei consensi, appannando la sua immagine di decisionista, di alternativa chiara all’esistente e di leader in costante ascesa predestinato prima o poi alla vittoria. Il recente caso delle elezioni britanniche ci ricorda che in democrazia la strada maestra per il successo di un uomo politico è quella di mantenere una linea ferma, chiara e riconoscibile dagli elettori, senza lasciarsi avviluppare dai bizantinismi. La vertiginosa parabola di Renzi, all’inverso, lo conferma.

Infine, ogni cedimento sul terreno della legge elettorale verso il proporzionalismo, al di là delle migliori intenzioni e delle soluzioni tecniche, finirebbe inevitabilmente per rendere più complicato, pur in caso di vittoria, qualsiasi tentativo di governare efficacemente, e obbligherebbe Salvini ad un’estenuante catena di compromessi che in breve eroderebbero il credito ottenuto nelle urne, per quanto ampio esso possa essere.


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