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Perché gli Usa attaccano una milizia filo-iraniana tra Iraq e Siria

Cinque attacchi aerei, tre in Iraq e due in Siria, hanno colpito poche ore fa postazioni della Kata’ib Hezbollah, milizia sciita irachena tra quelle a controllo remoto dall’Iran. I raid li ha annunciati ufficialmente il Pentagono, dopo che per circa un’ora erano iniziate a circolare informazioni sui social network. Si tratta dell’operazione di rappresaglia (la prima per ora: sarà l’unica?) per l’uccisione di un contractor civile della Difesa due giorni fa a Kirkuk, finito sotto una pioggia di oltre 30 missili Katyusha che la Kata’ib aveva lanciato contro la base K1, avamposto tattico che gli Stati Uniti condividono con le forze locali per combattere l’Is.

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La milizia sciita irachena è responsabile di una serie di questi lanci di razzi che negli ultimi mesi sono stati diretti verso obiettivi americani (e altre milizie amiche dell’Iran hanno seguito l’esempio). L’amministrazione Trump era stata chiara, aveva parlato direttamente il segretario di Stato, Mike Pompeo, e annunciato che c’era una linea rossa invalicabile: colpire cittadini americani. L’attacco di Kirkuk ha lasciato un civile morto e quattro militari feriti, e per Washington a quel punto era impossibile esimersi dalla “risposta decisa” annunciata da Pompeo.

“L’Iran e le sue forze per procura KH devono cessare i loro attacchi contro gli Stati Uniti e le forze della coalizione e rispettare la sovranità dell’Iraq, per impedire ulteriori azioni difensive da parte delle forze statunitensi”, scrive il Pentagono nel proprio comunicato toccando un nervo scoperto. Perché proprio contro quella violazione di sovranità imposta da queste strutture di sistema sostentate dall’esterno sono scesi in piazza migliaia di cittadini iracheni negli ultimi due mesi.

“Fuori l’Iran dall’Iraq” cantavano, perché le milizie sono diventate uno Stato nello Stato che prolifera attraverso l’incrostazione sociale fino ai gangli del potere, una specie di corpi mafiosi che in alcuni contesti e situazioni si sostituiscono allo Stato. Le proteste sono state represse con violenza, oltre quattrocento persone sono state uccise in strada: gli hanno sparato contro le stesse milizie, coordinate dai Pasdaran, che sono il corpo militare teocratico che si occupa di gestire questa politica di influenza velenosa contro cui gli Stati Uniti stanno lavorando – e con loro gli alleati del Golfo e Israele.

L’attacco odierno rischia di infiammare una situazione già molto tesa da oltre un anno e mezzo, ossia da quando l’amministrazione Trump ha tirato fuori gli Usa dall’accordo sul nucleare anche contestando il doppio gioco iraniano, che da una parte sembrava rispettare le clausole dell’intesa e dall’altra spingeva con forza il piano di influenza giocato tramite le milizie in Siria, Iraq, Libano e in parte Yemen. Il bilancio per ora parla di almeno una ventina di miliziani uccisi. E potrebbe portarsi dietro anche risposte immediate: in Iraq , dove ci sono cinquemila militare Usa, le milizia sono armatissime e pronte all’azione.

Nei giorni scorsi è stato pubblicato da Planet Labs, una società americana che si occupa di immagini satellitari, una foto di inizio dicembre in cui si vede dall’alto la portaerei “USS Lincoln”, che mentre doppiava lo stretto di Hormuz è stata affiancata da una flottiglia di barchini dei Pasdaran. Un’azione di disturbo. Nei mesi estivi, quelle stesse imbarcazioni agili, piccole e ben armate, avevano bloccato alcune petroliere e infastidivano il transito commerciale in uno dei tratti di mare più nevralgici del mondo.

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Anche per questo la Lincoln si trova in quella posizione, alla guida di una coalizione creata dagli Usa per proteggere quelle rotte strategiche e che avrebbe dovuto ottenere molte più adesioni di quante ne ha avute. L’area è battuta infatti anche da navi europee (guidate dalla Francia dallo scalo di Abu Dhabi), e fino a lunedì ospita un’esercitazione dall’alto valore politico tra Cina, Russia e Iran, che operano più a sud – tra il golfo dell’Oman e l’Oceano Pacifico.


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