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#Usa2020 Cosa c’è dietro la fuga di Kamala Harris. L’analisi di Gramaglia

Con l’uscita di scena di Kamala Harris, la corsa alla nomination democratica per la Casa Bianca perde il suo primo “pezzo da novanta”; o, almeno, quello che doveva essere un “pezzo da novanta”, ma che in realtà ha sempre sparato a salve, tranne, forse, in uno o due dibattiti estivi, quando parve che la campagna della “Obama donna” decollasse (ma fu una fiammata).

Così, la corsa alla nomination, sempre affollatissima – a un certo punto i candidati erano 24 o 25 -, assomiglia sempre più a un gerontocomio: ai tre “grandi vecchi” che menano le danze dall’inizio, in ordine d’età Bernie Sanders, 78 anni, Joe Biden, 77 anni, ed Elizabeth Warren, 70 anni, s’è appena aggiunto Michael “Mike” Bloomberg, 77 anni. Tutti lì per sfidare Donald Trump, che di anni ne ha 73.

Forse pure il dato anagrafico spiega il successo, magari solo temporaneo, di Pete Buttigieg, 37 anni, il nipote prediletto dei nonni (bianchi) d’America, sempre più su nei sondaggi, specie nei due Stati che apriranno la stagione delle primarie, Iowa e New Hampshire. Buttigieg, sindaco di South Bend nell’Indiana, omosessuale dichiarato e candidato “arcobaleno”, non pare però un candidato credibile per la Casa Bianca, nonostante i media “liberal” ne abbiano fatto il loro cocco, un po’ una mascotte. Sta raccogliendo un imprevisto seguito fra gli elettori bianchi della terza età, mentre esercita meno richiamo sui giovani e sulle minoranze, specie fra i neri.

L’annuncio dell’abbandono della Harris, 55 anni, senatrice della California, è giunto martedì sera: una sorpresa più nei tempi che nei fatti, perché la sua campagna, dilaniata all’interno da tensioni e rivalità, era da settimane in difficoltà. La Harris motiva la decisione con la mancanza di fondi, ma probabilmente questa non è l’unica ragione.

L’uscita di scena della “Obama donna” è stato commentato in modo sarcastico da Trump: “Peccato. Ci mancherai Kamala!”, twitta da Londra, dov’è per il vertice della Nato, il presidente. Kamala meritava senz’altro un epitaffio meno acido, perché, prima che qualcosa s’inceppasse, pareva potesse diventare la “donna da battere” di questa stagione elettorale americana.

Al naufragio della campagna della Harris, ha dedicato un servizio inchiesta il New York Times, che aveva intervistato una cinquantina di membri ed ex membri del suo staff e di sostenitori. Tutti puntavano il dito su una mancanza di strategia e una disorganizzazione di fondo: colpa del vertice, cioè di Kamala e di sua sorella Maya, manager della campagna.

Una lettera di dimissioni di una collaboratrice aiutava a ricostruire le tensioni all’interno del team. Kelly Mehlenbacher scrive: “È la mia terza campagna elettorale presidenziale e non ho mai visto un’organizzazione che tratta così male lo staff. Continuo a ritenere che la senatrice Harris sia la candidata migliore per vincere le elezioni del 2020, ma non ho più fiducia nella sua campagna e nella sua leadership” si leggeva nella missiva. Per la Mehlenbacher, era “inammissibile che a meno di 90 giorni dall’Iowa non ci sia ancora un piano per vincere”. In realtà, probabilmente Kamala e Maya stavano già progettando la via di fuga.

Figlia di immigrati – indo-americana la madre, giamaicano il padre -, la Harris è stata il primo attorney generale donna della California e l’età ne faceva il “trait-d’union” ideale tra i candidati più anziani e quelli più giovani. Nel farsi da parte, la senatrice s’impegna a “continuare a combattere ogni giorno per gli obiettivi di questa campagna: giustizia per la gente. Tutta la gente”.

In una mail, la Harris scrive: “Ho fatto il punto ed esaminato la situazione da tutti gli angoli e sono giunta a una delle decisioni più difficili della mia vita: la mia campagna semplicemente non dispone delle risorse finanziarie necessarie di cui abbiamo bisogno per continuare”. E pensare che, dopo l’annuncio della sua candidatura, il 21 gennaio, in sole 24 ore aveva raccolto 1,5 milioni di dollari, superando per numero di contributi online il record di Sanders nel 2016. Segno dell’entusiasmo che aveva inizialmente suscitato, nella speranza di essere la prima donna, per di più di colore, a infrangere il soffitto di cristallo che Hillary Clinton aveva appena scalfito.

Acerrima avversaria di Donald Trump, soprattutto sul fronte dell’immigrazione, la senatrice a fine giugno insidiava nei sondaggi Biden, oggetto dei suoi attacchi per il passato segregazionista, e Sanders. Poi, s’è man mano persa, non riuscendo a tradurre in una solida candidatura la sua energia e la sua piattaforma progressista, che non ha asprezze e radicalismi, rispetto a quella di Elizabeth Warren. Trump, per una volta, ha ragione: ci mancherai, Kamala! E, magari, mancherai pure ai democratici.



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