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Libia, cosa vuole l’Italia dalla Conferenza di Berlino? L’analisi di Valori

Quali sono le differenze strategiche e militari, oltre che politiche, tra la guerra in Libia del 2011-2012 e il conflitto attuale, nella Libia post-gheddafiana?
Molte. La prima, è che le potenze che hanno iniziato lo scontro tra una ambigua “entità” cirenaica, con forti impronte jihadiste (non dimentichiamo che la Cirenaica, anche con Gheddafi, era la maggiore aurea geografica di provenienza dei jihadisti delle guerre afghane e dell’Asia Centrale) e l’entità tripolitana, erano all’epoca ben distinte e quasi tutte occidentali. Oggi, chi comanda sul terreno in Libia è solo formalmente sottoposto a un droit de regard di altre potenze esterne al quadrante mediorientale o asiatico.

Tutta l’Europa, per ignavia, sta per sparire dal quadrante maghrebino e, in futuro, dall’Africa. Che sarebbe, peraltro, il “continente complementare” della penisola eurasiatica. La guerra per procura tra Gheddafi, che agì comunque e fieramente da solo, salvo un tenue sostegno cinese e dell’Est slavo, e gli amici jihadisti dell’Occidente in Cirenaica, dove la tradizione del radicalismo islamico specifico (la confraternita senussita) era ancora forte, fu l’ultima operazione dello sfortunato e dissennato progetto Usa delle “primavere arabe”, basato sulle tecniche di “guerra non ortodossa” ma non violenta e di massa elaborata all’epoca dalla Albert Einstein Foundation, associazione promossa da Gene Sharp nel 1983.

L’idea delle “primavere” era quella, come disse un vice-Direttore della Cia, di “evitare il contatto tra le masse arabe e Al Qaeda”. E di far rivoltare quindi le masse arabe proprio contro il jihad. Inutile aggiungere altro, la storia lo ha già fatto. Oggi, la grande proxy war si è trasformata in una grande azione in cui i referenti maggiori delle forze in campo in Libia sono strategicamente al seguito, non avanti, alle loro forze di riferimento sul campo, sempre in Libia. Perché i rapporti di forza contano, e sul terreno, mentre le leopardiane “belle fole” sono, come ci ha insegnato il conte di Recanati, inefficaci e illusorie.

A Berlino, Haftar, l’uomo forte del governo dell’Est cirenaico, si presenta con una avanzata mai del tutto completata e mal riuscita verso Tripoli, malgrado che il governo “garantito” dall’Onu di Al Serraj, abbia avuto importanti defezioni dal gruppo delle qatibe di Misurata; e che le forze dell’ex-generale di Gheddafi siano arrivate ormai tra i sobborghi di Tripoli e ancora malgrado che il sostegno, finanziario e operativo, di Egitto, soprattutto ora, della Federazione Russa, degli Emirati e dell’Arabia Saudita non sia mai cessato.

Haftar ha bisogno, sia per le sue labili condizioni di salute, sia per “tenere” le sue truppe, che potrebbero disperdersi esattamente come quelle di Al Serraj, di una vittoria simbolica ma anche politicamente effettiva e rapida, contro le anticamente odiate, da tutto il popolo cirenaico, genti della Tripolitania. Re Idriss II, l’ultimo monarca libico prima del golpe gheddafiano, organizzato dai nostri Servizi, si vantava di “non essere mai stato a Tripoli”. Quindi Khalifa Haftar, l’uomo che fu pesantemente punito proprio dal colonnello Gheddafi per la sua maldestra operazione in Ciad, la lunga e decennale operazione libica a sud, a respingere le forze filofrancesi di Tombalbaye e Hissene Habrè, non ha ancora vinto e non può non vincere in breve tempo. Altrimenti diventa irrilevante per i suoi sostenitori e perderà la sua credibilità sociale e economica, essenziale in questo tipo di guerra.

La Federazione Russa, che lo ha apertamente sostenuto e che ancora lo tiene sugli scudi, non vuole però colpi di testa; e preme per un accordo con la Turchia che permetta a Mosca di fare da vero mediatore, visto che gli occidentali parlano ancora di farfalle, con i referenti di Al Serraj, l’uomo ancora circondato nel suo palazzo di Tripoli, sul porto, al quale arrivò, appena nominato, senza particolari motivi razionali, dall’Onu, via mare, perché a Mitiga, l’aeroporto della Tripolitania, sapeva che lo avrebbero fatto subito fuori.

Mosca vuole sfruttare, in breve tempo, il buco strategico che è sul terreno e nella testa dei decisori occidentali. E, quindi, ha bisogno di un rapido accordo tra le parti libiche, per sfruttare il ruolo centrale dei russi e, quindi, dettare le proprie condizioni a Italia, Germania, Francia, Turchia, con la quale vi sono altre partire russe aperte, e anche con gli altri attori del Golfo, che ancora non sanno come sfruttare al meglio la nuova tensione sul terreno tra Usa e Iran, che potrebbe ricominciare a lavorare in Libia tramite il Qatar e, magari, con una sua forza di spedizione, organizzata dalla nuova direzione della Forza Al Quds, piena di sciiti siriani e di ex-collaboratori delle forze iraniane dei Pasdaran in Siria.

Lo stesso che sta facendo la Turchia, peraltro, che sta inviando, dalle zone della Siria settentrionale, oggi acquisite da Ankara, i jihadisti “turcomanni” siriani, che sono stati costruiti dal Mit, il servizio segreto di Erdogan, verso il sostegno al “fratello musulmano” Al Serraj. Ovvero: è la divisione e/o la disponibilità dei proxy players, dei combattenti sul campo libico, che determina il comportamento dei loro referenti “grandi”, non viceversa. Inoltre, la nuova configurazione politica di vertice del Paese, nella Federazione Russa, non è ininfluente a fronte dell’impegno di Mosca in Libia.

Putin, con la sua nuova riforma del sistema rappresentativo e dell’Esecutivo russo, annunciata il 16 gennaio, vuole riassicurarsi della possibilità di nominare, senza particolari contratti con altri gruppi di potere russi, il suo futuro successore. Il potere moscovita, che per ormai molti anni è stato fermo nelle salde mani di Vladimir Vladimirovic Putin, si ritrova più diviso e meno malleabile, nelle mani della nomenklatura attuale del Cremlino. Che sta cambiando pelle e utilizza, probabilmente, anche le rivolte di piazza contro Putin per spingere ad una nuova lotta di potere tra i “delfini” dello stesso Putin, costringendolo a scelte obbligate, anche in politica estera.
Putin vuole, probabilmente, concentrarsi in futuro sull’Europa e sulla trasformazione economica del suo Paese, e sarà sempre meno interessato alle avventure periferiche rispetto al suo quadro primario, che sarà quello della ricostruzione economica e sociale interna e della stabilità del suo Estero Vicino.

Ma l’ex-Capo dei Servizi russi non ha più in mano, senza discussioni, la sua vecchia “élite del potere”, che vuole riformare radicalmente, anche con la scusa, o magari la realtà, della eliminazione della “corruzione”. Anche Putin, quindi, non può giocare, a Berlino, tutte le sue carte. Parigi, lo dice quasi esplicitamente, vuole semplicemente prolungare la tregua in Libia, in attesa di tempi migliori, che non verranno mai, e di una piccola egemonia sull’accordo, del tutto eventuale, tra Al Serraj e Haftar.
Accordo che, se anche ci fosse, non sarebbe determinato da Parigi o da Roma ma dalle reali forze in campo, ovvero dal potere effettivo delle organizzazioni militari locali.
Che sono quasi tutte in mani extra-europee.

Se anche l’accordo vi fosse, il dichiarare prima cosa si vorrebbe manifesta l’esistenza di un istinto suicida. Che cosa vuole poi Parigi, davvero, i cui servizi sono all’origine delle prime sceneggiate sulla rivolta, sostenuta da una fantomatica sezione della parigina ”associazione per i diritti dell’uomo”, sezione libica? E che oggi è ancora dietro, in buona parte, ad Haftar? Per ovvi motivi anti-Eni, certamente. Dal generale della Cirenaica la Francia vuole, in primis, la gestione a favore di Parigi delle riserve petrolifere tra l’Est, la Sirte e la prima parte della Tripolitania; e inoltre una tenuta strategica del meridione libico per ulteriori prospezioni della Total, che dovrebbe materializzare l’obiettivo no.1 della presenza francese dal 2011 in Libia: la presa dell’Eni e la totale espulsione dell’Italia dal Maghreb.

La Russia vuole invece, come minimo, centrare l’obiettivo di una base militare in Cirenaica, che dovrebbe far mutare tutta l’equazione strategica di Mosca rispetto alla UE, ma questo l’Europa non lo sa ancora. La cosa non è del tutto incompatibile con alcuni interessi italiani, che potrebbero giocare Mosca contro Parigi. Alla Russia non interessa chi comanda sul petrolio libico dell’Est e del Centro del Paese, ma chi glielo conferisce meglio e a meno prezzo. Inoltre, Parigi vuole egemonizzare la nuova “forza di interposizione” che dovrebbe, ripetiamo dovrebbe, essere costituita dall’Onu.

Qui, le ambiguità del governo italiano sono state pericolose e, talvolta, umoristiche. Prima, c’è stata l’idea di affidare tutto all’Europa, una organizzazione che possiede certamente un “deep void”, un Vuoto Assoluto, quale Commissario agli Affari Esteri, ma non mi riferisco all’attuale Commissario Borrell, ma non possiede nemmeno alcuna organizzazione credibile di tipo politico-militare per operazioni fuori-quadro. Quale struttura Ue dovrebbe poi occuparsi della pacificazione della Libia?
Il Gruppo Politico-Militare? Ovvero l’Eumc, che “fornisce consulenza militare al Pesc” (il Commissario agli Esteri Ue) e che oggi è presieduto dal nostro gen. Graziano?
Non è adatto a comandare, ma solo a chiedere, ai Paesi Membri della Ue che cosa vogliano fare con le loro personali Ff.aa.

Poi, quando siamo sempre in tanti a pranzo, dobbiamo sempre sapere chi paga. L’idea italiana di imitare Unifil II, la ventennale usucapione di buona parte del Libano Meridionale, che non è stata nemmeno capace di bloccare la “piccola guerra” di Agosto 2006 di Hezb’ollah contro Israele non è un modello è una ingenuità.
Unifil è una cosa diversa da una interdizione d’area o da una Forza di Interposizione, è poi una piattaforma politico-militare per tutto il Medio Oriente, dove tutti parlano con tutti, ma al riparo da tutti, il che non potrebbe essere il caso per una Forza tra Al Serraj e Haftar. Ho inoltre la forte impressione che, dopo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio Conte e del suo Ministro degli Esteri Di Maio, riguardanti il fatto che i nostri soldati (quali? Quelli richiamati da altre postazioni africane o mediorientali, collegate al quadrante libico e non meno importanti di esso?) che “non saranno, i nostri militari, mai impegnati, per nessun motivo, in azioni armate”, tutti gli altri membri della UE si siano fatti, ci immaginiamo, una bella risata.

Che cosa si vuol fare quindi a Roma con delle Forze di Interposizione, le cui Norme di Intervento sono peraltro inevitabilmente redatte dall’Onu, non dall’Italia?
Probabilmente, si vorrebbe fosse una sorta di guardia disarmata a qualche giudice internazionale, che verificherà senza poterle notificare, come grida manzoniane, le rotture della tregua, siamo quindi all’esportazione globale di “mani pulite”, atto di fondazione di questa povera “seconda Repubblica” altro che all’elaborazione di una politica italiana intelligente per il Maghreb.

L’Italia, ubriaca della sua supposta eticità kantiana ma fiera ancora del suo “articolo 11” della Costituzione, ha dichiarato fin dall’inizio, Paese sconfitto nella II Guerra Mondiale, di voler esserlo ancora e di rimanere tale sine die. Le Ff.aa. di qualsiasi Paese sono come il deposito in banca di una qualsiasi politica estera. Se si emettono decisioni senza il contante della Forza che serve a metterle in pratica e, soprattutto, a costringere gli altri allo stare decisis geopolitico, allora si emettono decisioni, o assegni, a vuoto. Quindi, cosa vuole l’Italia dalla Libia e dalla prossima Conferenza di Berlino? Farsi espellere dall’Africa del Nord, essenziale per la nostra sicurezza energetica e materiale-militare, oltre che per le comunicazioni, civili e militari. L’Italia ha ormai il ruolo del cameriere geopolitico, ruolo peraltro non lontano da alcune professioni effettivamente svolte da alcuni degli attuali decisori, fino a alcuni anni fa.

Preferisce, l’Italia attuale, raccogliere le briciole e le concessioni, che non ci saranno, dal pasto africano degli altri. In un contesto, poi, dove, come è giusto, sono stati invitati a Berlino Paesi come l’Algeria, che abbiamo anch’essa perduta, la Cina, interessatissima al business della ricostruzione libica, l’Unione Africana, che rappresenterà gli interessi, a Berlino, soprattutto dei Paesi sub-sahariani, la Lega Araba, che terrà ad una pacificazione stabile del jihad con il resto della comunità musulmana africana, e per togliere il jihad dalle mani degli occidentali, la Repubblica del Congo, pronta a pesare per le sue necessità di ricostruzione energetica e economica interna, ma ovviamente anche l’Egitto, che vuole togliere Haftar dalle mani degli altri players mediorientali per utilizzarlo come forza per il ridisegno della sicurezza occidentale del Cairo e contro l’espansione, via Turchia, della Fratellanza Islamica, nemica n.1 del potere di Al Sisi, e poi gli Emirati Arabi Uniti, che vogliono estrarre il massimo di leverage economico e politico dalla loro nuova e inusitata posizione nel maghreb, pensata per escludere buona parte della “Vecchia Europa”.

I sauditi, centrali anch’essi per Haftar, non vogliono mettersi contro gli Usa e Israele, acuendo il loro impegno verso il governo di Tobruk che organizza la politica di Haftar, ma vogliono anche mantenere una solida egemonia nel Maghreb in direzione antiturca (ma senza urtare i loro buoni rapporti con Mosca e con gli Usa, ancora essenziali per le loro guerre regionali wahabite). Quindi, sostegno ad haftar, ma con juicio. E poi, cosa vuole la Turchia? Sostiene oggi duramente Al Serraj, sostenuto anche dalla Fratellanza Musulmana, il cui referente primario è il Qatar, ambiguo correlatore tra i sauditi e l’Iran, con cui ha determinanti rapporti economici, vuole Erdogan una Tripolitania che è caduta nelle mani dei turchi perché l’Italia non ha saputo, o meglio voluto, sostenerla militarmente, anche, magari, con una vera forza di interposizione. Non una scorta appena armata per le “mani pulite” maghrebine.

Ankara vuole poi una continuità strategica tra i suoi recentissimi accordi petroliferi e gazieri con la Tripolitania, continuità primariamente marittima ma che ha bisogno di una efficacissima copertura terrestre. Anche tale ridisegno delle Sar e delle Zone di Controllo Marittimo, che sono per natura loro accordi bilaterali, ci vedrà esclusi da un diretto controllo delle nostre reti petrolifere Eni dal centro della Libia verso le coste libiche. E ciò non è un caso, visto che la Tunisia, possibile alternativa italiana alla restrizione dell’area libica dell’Eni, non è stata ancora invitata alla Conferenza di Berlino sulla Libia della prossima domenica 19 gennaio 2020.


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