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Tra celibato e castità. Riflessioni sul libro del cardinale Sarah

È appena uscito nelle librerie francesi il libro cofirmato – nell’attuale sua primissima tiratura – dal papa emerito Benedetto XVI e dal prefetto della congregazione vaticana per il culto e i sacramenti, il cardinal Robert Sarah.

Le pagine di Joseph Ratzinger nel libro di Sarah sono poco più di una trentina e la maggior parte dei commentatori si concentrano esclusivamente su di esse, anche perché effettivamente sono quelle meglio scritte e più dense di spunti su cui riflettere. Non mancano le critiche più o meno esplicite, più o meno ovattate, più o meno pertinenti. Molti vi ravvisano non poche sbavature esegetiche, ermeneutiche e teologiche. Non intendo entrare in una disputa alquanto scomposta, che oppone partigiani di questa e quell’altra fazione. Mi rendo conto, anzi, che questa sarebbe un’occasione buona per seguire il suggerimento di papa Francesco, che invita tutti a ispirarsi a quella che invoca come la “Vergine del silenzio”, la Madonna raffigurata con un dito poggiato sulle labbra. Se si sceglie di non parlare, è più facile mettersi in ascolto delle altrui ragioni.

Nondimeno, leggendo le pagine di Ratzinger, mi son fatto l’opinione, semplice e fors’anche modesta, certamente personalissima, che se una qualche sbavatura in esse c’è, la si può cogliere in quella che tra le righe appare come una datata teologia del “sacerdozio” (come tale inevitabilmente interpretata in senso “cultuale” e “sacrale”). Sarebbe assurdo voler dare i voti a chi è stato e rimane uno dei più grandi teologi del Novecento e che, impersonando insieme il magistero della cattedra episcopale e quello della cattedra universitaria, può ben essere annoverato tra i padri e i dottori della Chiesa contemporanea. Tuttavia, a mio sommesso parere, non si può non notare in quest’ultima sua pubblicazione il mancato riferimento ad alcuni luoghi neotestamentari, fondamentali per poter teologare circa il “sacerdozio” cristiano: per esempio alla Lettera agli Ebrei, o all’insegnamento evangelico sulla continenza sessuale (eunuchìa) vissuta per il Regno dei cieli, su cui del resto il papa emerito si è altrove soffermato. La conseguenza fatale è che, qui, non viene illustrata una completa teologia del “ministero presbiterale” (ancorché sul “ministero/servizio” Benedetto XVI insista in più di un passaggio). Se non fosse per questa dimenticanza biblica, si potrebbe persino sorvolare su quello che alcuni commentatori piuttosto critici hanno indicato come il limite maggiore della riflessione ratzingeriana, e cioè il mancato rimando al decreto conciliare “Presbyterorum ordinis” n. 16, che non a caso si riconduce all’insegnamento di Gesù sulla “perfetta e continua continenza per il Regno dei cieli”.

Difatti, quest’inserzione di Ratzinger nel libro di Sarah non pare originariamente pensata in ordine alla questione del celibato dei preti. Dà, semmai, l’impressione che si tratti di un vecchio appunto, forse – chissà – la bozza di un documento (mai promulgato) della congregazione per la dottrina della fede, di cui Ratzinger fu prefetto, sul senso del “sacerdozio” spiegato proprio come tale, cioè come “servizio sacrale”, più che presentato come servizio offerto da chi a vario titolo è “anziano” (presbyteros, in greco) in seno alla comunità ecclesiale. En passant c’è certamente un affondo sul tema del celibato, ma non sembra che questo costituisca lo scopo delle pagine in questione. In ogni caso, il pressoché unanime consenso sullo stile elevato ed elegante di queste pagine, mi ha spinto a leggerle attentamente. E devo convenire che nel complesso – al netto delle osservazioni sul deficit prima segnalato, che riorienta, o disorienta, la riflessione teologica dal tema del ministero presbiterale a quello dell’officiatura cultuale – si tratta di pagine scritte teologicamente bene, secondo il consueto standard ratzingeriano.

La sporgenza più problematica sembra essere il passaggio sull’“astinenza ontologica”, espressione stante per “celibato connaturale alla vocazione del prete cattolico”, che dà l’impressione d’essere una interpolazione dell’ultimo momento. Effettivamente, nelle pagine di Ratzinger (non a caso intitolate “Il sacerdozio cattolico”, come si usava ancora negli anni sessanta del secolo scorso, prima del Vaticano II), la sottolineatura della presunta valenza ontologica del celibato riecheggia una mentalità teologica esclusivamente cultuale e sacrale. Ratzinger l’argomenta proprio facendo leva sull’astinenza sessuale per motivi di purità sacrale, ricorrendo all’analogia con il culto anticotestamentario: come i sacerdoti dell’antica alleanza non entravano nel tempio a celebrare il culto prima d’essersi purificati, tra le altre cose anche dall’esercizio della sessualità – dato che erano sposati – almeno tre giorni prima dell’officiatura del rito, così i preti della nuova alleanza devono astenersi dal praticare sesso e, siccome ormai essi celebrano l’eucarestia quotidianamente, è gioco forza che rimangano celibi e non sposino.

Quella che in antico, presso l’Israele biblico, era un’astinenza funzionale, ora per i preti cattolici può essere intesa come un celibato ontologico: così scrive il papa emerito. Sorprende che in questa riflessione di Ratzinger non sia mai richiamato il consiglio di Gesù ai suoi discepoli circa la cosiddetta “eunuchìa”: il Maestro di Nazaret diceva ai suoi discepoli che avrebbero dovuto scegliere di essere “eunuchi per il Regno”. C’è una eunuchìa per natura (appunto quella “ontologica” potremmo dire, forse, forzando un po’ il parallelo), ma questo non è il caso dei discepoli. C’è pure una eunuchìa per costrizione (per disciplina o per pubblica consuetudine, potremmo parafrasare), ma neppure questo è il caso dei discepoli. C’è infine una eunuchìa per il Regno, che implica donazione libera e consapevole, non solo per dedicarsi alla celebrazione del culto dentro il santuario, ma anche per celebrare nel quotidiano, fuori dal tempio, il nuovo culto e il nuovo comandamento di Gesù, quello dell’amore di Dio e dell’amore per tutti gli altri (come del resto già lo “Shemà” nel Libro del Deuteronomio e il comandamento dell’amore per il prossimo nel Libro del Levitico, raccomandavano): questo sì è il caso dei discepoli. La “eunuchìa per il Regno” sospinge i discepoli fuori dal tempio, al di là del recinto sacro, e li proietta nella profanità, lì dove il Regno stesso scivola come un chicco di frumento tra le zolle, come un semino di senapa in mezzo al campo, come un tesoro nascosto in un anfratto sotterraneo, come una perla preziosa trovata fra mille cianfrusaglie nel banchetto di un antiquario. Non per niente il Maestro di Nazaret racconta la parabola del buon samaritano proprio a un dottore della Legge, a uno che lavorava nel tempio di Gerusalemme, invitandolo infine a far la stessa cosa del samaritano, cioè a caricarsi dell’impurità degli altri, a sporcarsi del sangue del ferito incontrato sul ciglio della strada.

Ascoltare l’insegnamento del Maestro significa per i suoi discepoli vivere un nuovo servizio, che li impegna nel mondo e in favore del mondo. Ascolto del vangelo e servizio autentico sono ormai collegati. E non a caso nello stesso capitolo 10 del vangelo secondo Luca, subito dopo la parabola del samaritano, è raccontato l’episodio delle due sorelle di Betania:  il Maestro a Marta – “assorbita dai molti servizi” – dice che Maria ha scelto la “parte buona”, o migliore, che è quella del servizio dell’ascolto. Il servizio è ormai un ministero che si realizza come “auditus fidei” non meno che come “auditus temporis” (ascolto credente della Parola e discernimento dei segni dei tempi).

In una interpretazione soltanto cultuale e sacrale del “sacerdozio cattolico” si rischia di non tener conto di queste fonti evangeliche cui sto facendo riferimento. E neppure dell’insegnamento conciliare riguardante la vita e la missione dei preti, che – già a partire dal titolo del decreto sopra ricordato – si propone come un magistero sul “ministero dei presbiteri” più che sul “sacerdozio” (la scelta dei termini non è indifferente). Questo rischio fa capolino anche nelle pagine di Ratzinger, probabilmente a motivo del fatto che esse, tempo fa ormai, avrebbero dovuto costituire soltanto un capitolo di un più articolato documento o di una pubblicazione più ampia, come prima ipotizzavo. Fatto sta che l’esito è il risucchio in una prospettiva solo sacrale e cultuale del servizio presbiterale/sacerdotale, nella quale si finisce per dimenticare che i cristiani non “sabatizzano più”, come fu detto in epoca patristica: cioè celebrano in modo nuovo il culto al loro Signore, non più alla maniera o nell’ottica dell’antico giudaismo e, in ogni caso, non più soltanto in ambito rituale. E, peraltro, col rischio di cadere nel clericalismo e persino nella sessuofobia, a dispetto delle rassicurazioni contrarie che si leggono nel libro di Ratzinger e Sarah.

In realtà, l’intero popolo ecclesiale “sta dritto al cospetto di Dio” – bella espressione usata dal papa emerito – durante la celebrazione del culto eucaristico: per tal motivo, recitando il secondo canone eucaristico, durante la messa, a un certo punto, si potrebbe a ragione pregare “ricordati, Padre, di tutto il popolo sacerdotale” e non semplicemente “di tutto l’ordine sacerdotale”.

Inoltre, celibato e castità stanno in un rapporto di discontinuità-nella-continuità. Si veda, a tal proposito, l’icona di san Giuseppe tratteggiata dall’evangelista Matteo: il padre putativo di Gesù non fu celibe, eppure fu casto nel suo rapporto sponsale con la Vergine Maria. Il celibato è infatti uno stato anagrafico, mentre la castità è una condizione spirituale ed esistenziale. D’altro canto, la sessualità non può essere ancora considerata una faccenda impura, altrimenti dovremmo ammettere che solo i preti – quelli che si astengono dalle pratiche sessuali – possono partecipare alla messa ogni giorno, mentre non lo si può pretendere dai battezzati laici sposati, salvo nel caso che rinuncino a fare sesso con la propria coniuge, a vivere cioè un sereno e completo rapporto matrimoniale.

D’altra parte, considerando l’intera questione con una buona dose di realismo, il vero problema sta nella corrispondenza tra ministero e giurisdizione: ripensando seriamente questo nesso, il clericalismo potrebbe una buona volta essere neutralizzato. Perché nella Chiesa si tornerebbe, forse, a ricordare che in tanto la giurisdizione può coincidere con il ministero, l’autorità con il servizio, in quanto si saldano nel gesto insegnato da Gesù durante l’ultima cena lavando i piedi a Pietro e agli altri apostoli: “Fate anche voi come io sto facendo”.



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