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I media? Se non sono amici, li combatti. Parola della Cina

Metti un pugile di 48 chilogrammi che sfida uno di 86. “Il pugile da 86 chilogrammi, con la buona volontà di proteggere il peso piuma, gli consiglia di andarsene e pensare agli affari suoi, ma quest’ultimo non ascolta e addirittura fa irruzione nella casa del pugile peso massimo. Quale reazione vi aspettate da parte di quest’ultimo?”. Il peso piuma sono i media svedesi, il peso massimo è la Cina. A lanciarsi in questo duro paragone è stato Gui Congyou, ambasciatore cinese a Stoccolma, durante un’intervista rilasciata alla SVT, la televisione di Stato svedese.

Nel corso del colloquio dell’8 gennaio scorso, l’ambasciatore Gui ha anche definito “i frequenti e viscidi attacchi al Partito comunista cinese e al governo cinese” da parte dei media svedesi come “calunnie”. Poi il paragone violento dei pugili. E un altro ancora: i giornalisti svedesi dipinti come Belikov, il sinistro personaggio de L’uomo nell’astuccio di Anton Cechov, seduti alle loro scrivania “cercando di pensare come calunniare la Cina”. 

“Alcuni media e giornalisti svedesi lanciano sempre accuse e attacchi infondati alla Cina, istigando lo scontro, l’odio e la divisione tra i due Paesi e i popoli”, ha dichiarato ancora l’ambasciatore Gui.

A rendere l’attacco ai giornalisti svedesi e alla libertà di stampa ancor più inquietante c’è il fatto che il sito dell’ambasciata cinese a Stoccolma abbia piazzato in bella mostra sul portale la trascrizione dell’intervista in inglese. Quasi a vantarsene. E appare forse ancor più sconcertante l’affermazione secondo cui l’ambasciata fa bene a negare il visto a un giornalista che non vuole andare in Cina per “promuovere la fratellanza, la comunicazione, l’intesa e la cooperazione”. “Se le attività di un giornalista svedese violano la missione sopracitata (cioè promuovere quella che il diplomatico chiama fratellanza, ndr), i principi e l’etica professionale abbiamo il diritto di non rilasciare un visto”, ha spiegato.

L’intervista arriva in una fase in cui i rapporti tra Cina e Svezia vivono un periodo difficile dopo il caso dello scrittore Gui Minhai, nato in Cina ma cittadino svedese, scomparso in Thailandia nel 2015 dopo avere pubblicato un libro sugli scandali che avevano coinvolto alcuni politici cinesi a Hong Kong. Era riapparso sulla televisione di Stato cinese dopo alcuni mesi, confessando un incidente in stato di ubriachezza per spiegare la sua assenza: ha passato due anni in prigione prima di venire rilasciato nell’ottobre del 2017. Ma a inizio 2018 è stato arrestato in treno dalla polizia cinese mentre viaggiava accompagnato da alcuni diplomatici svedesi.

È dal caso Minhai che l’ambasciatore Gui ha messo nel mirino i giornalisti svedesi. Tanto da aver rilasciato dichiarazioni molto forti come una intitolata “L’ambasciatore Gui Congyou smentisce le bugie dei media svedesi sul caso di Gui Minhai” a pochi giorni dal conferimento a Minahi del premio Tucholsky (che ogni anno viene conferito ad uno scrittore o editore in esilio, minacciato o perseguitato) da parte del ramo svedese del Pen International. In quell’occasione l’ambasciatore arrivò a minacciare persino il ministro della Cultura svedese Amanda Lind avvisandola che Pechino avrebbe “preso contromisure” nel caso di sua partecipazione alla cerimonia di consegna del premio.

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