La Conferenza di Berlino sulla Libia è stata seguita e anche molto partecipata da dodici tra nazioni e organizzazioni. C’erano tutte quelle nazioni e organizzazioni che contano davvero nel quadrante libico: l’Egitto, che sostiene Haftar per la ovvia sicurezza dei suoi confini ad est, particolarmente delicati e per evitare anche la progressiva espansione ad Est, partendo dalla Tunisia e dalla Tripolitania, della Fratellanza Musulmana, asse del regime di Al Serraj e referente internazionale, tra gli altri, della Turchia di Erdogan.
L’Algeria, peraltro, teme l’espansione dell’instabilità politica emanantesi dalla Libia, che la colpirebbe immediatamente, e non vuole assolutamente essere esclusa dal “processo” di pacificazione libica, pur contrastando fortemente il ruolo della Turchia nella protezione del regime di Al Serraj. Il Congo vuole, dalla Conferenza sulla situazione libica, evitare la jihadizzazione, effetto dell’espansione del jihad libico, del recente conflitto interno nato dalle milizie dette Codeco, con la ulteriore islamizzazione violenta dell’etnia Lendu.
La Turchia vuole soprattutto iniziare a sfruttare le aree terrestri e marittime presenti e prospicienti alle coste della Tripolitania, per mezzo di un accordo già siglato con il governo di Al Serraj, accordo che si compone sia della parte economica e petrolifera che del suo pendant per la “collaborazione”, ovvero la protezione, militare della Tripolitania, indirettamente volta contro l’Italia e, per alcuni versi, contro la stessa Ue. Ecco perché questa scelta turca va bene anche per Vladimir Putin.
La mossa di Ankara in Tripolitania è, inoltre, diretta contro l’Arabia Saudita, ed è stata duramente commentata dall’Egitto, che non vuole avere tra i piedi, nemmeno in lontananza, i Fratelli Musulmani. Che sono stati l’organizzazione politico-militare contro la quale Al Sisi ha organizzato il suo golpe. Peraltro la Grecia, che sta rientrando lentamente nei giochi economico-strategici nel Mediterraneo e fa molto trading di idrocarburi con Misurata, vuole fare interdizione, anche militare, nei confronti delle mire mediterranee di Ankara, magari con il sostegno di Israele e Cipro.
Ovviamente, Libano e Giordania sono ferocemente opposte alle mire della Turchia di Erdogan in Libia, e non favoriscono certo la Tripolitania di Al Serraj. Motivo? La stretta relazione tra il governo tripolino, la Turchia dell’Akp erdoganiano e la Fratellanza. Si ricordi che la radicalizzazione islamista di un giovane, ricchissimo e occidentalizzato saudita, Osama bin Laden, ha inizio quando Osama incontra, da giovane enfant gâté, un professore universitario dell’Ikhwan, la Fratellanza. Se vince il capo militare di Tobruk e Bengasi, ovvero Khalifa Haftar, che è, lo ricordiamo, anche il capo militare di un governo che ha vinto le elezioni ma non ha avuto il riconoscimento internazionale, la Turchia perde automaticamente l’accesso alle risorse petrolifere che sta trivellando in Tripolitania e sulla costa del Paese di Al Serraj.
A Berlino ci sono anche, ricordiamolo, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È bene qui notare che Ghassam Salamé, lo special envoy dell’Onu e il capo Unsmil franco-libanese, sempre delle Nazioni Unite, ha dichiarato il 6 gennaio 2020 che “le altre nazioni”, intendendo qui i Paesi che sono fuori dal Consiglio di Sicurezza “non devono immischiarsi nei fatti libici”. Il riferimento, velato ma non troppo, riguardava il bombardamento da parte di “un Paese amico delle forze di Haftar” di una scuola allievi ufficiali. Con armi provenienti, comunque, da Paesi che sono ben incardinati, e da tempo, nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
I Paesi primari dell’Onu vogliono emarginare i referenti attuali, ma minori, delle forze in campo in Libia, ma i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu hanno però scelto gruppi militari diversi e opposti per operare con i propri interessi in Libia, ma tutta l’Onu, almeno formalmente, sostiene la Tripolitania di Al Serraj.
Un Cubo di Rubik geopolitico.
E l’Italia, cosa vuole dalla Conferenza berlinese sulla Libia? Il nostro governo è, innanzi tutto, “ottimista”, categoria poco in uso nel pensiero strategico e geopolitico. “Tutti dentro” per fare un “passo avanti verso la pace e la stabilità”, sembra un discorso motivazionale per venditori. Siamo una squadra fortissimi, si potrebbe aggiungere citando un successo musicale di un altro personaggio pugliese. Poi, arriva un discorso da pacifismo anni ’60, ovvero che “una soluzione militare non è una soluzione”. Ma c’è già in atto, la soluzione militare, e quindi il problema non si pone più. Lasciamo infine stare la quasi completa dimenticanza dell’Eni in Libia, da parte del governo.
Subito in trattativa con i nuovi capi della rivolta anti-gheddafiana, nei primi attimi del ferale 2011, con una trattativa sostenuta da un ottimo ex-dirigente del nostro contro-spionaggio, l’Eni ha sopportato di tutto. Insularizzata, con pochissimo personale e una dozzina di manager che vanno e vengono in aereo da altre aree, essa soffre, più di chiunque altra organizzazione nazionale italiana in Libia, la strana opzione del governo italiano attuale, quella di una sorta di equilibrio tra i due grandi campi militari opposti della Libia. Facile immaginare quanto questo sia utile alla protezione dei nostri interessi, che sono, o sarebbero, fondamentali.
Inimici a Dio e alli inimici sua, come si dice nel Canto III dell’Inferno dantesco, dove si tratta proprio di quelli di cui stiamo oggi parlando, gli Ignavi. Nel 2018, poi, l’Eni è tornata a fare esplorazioni e prospezioni in Libia, mentre è evidente che nessuna delle fazioni libiche ha un effettivo interesse ad arrivare alla pace. Prospettive? La diminuzione, malgrado tutto, della quota di estrazione Eni libica, che oggi vale circa il 15% del nostro fabbisogno nazionale, senza nemmeno immaginare dove prenderemo in seguito quel che ci serve, se lo perdiamo in Libia. Il mercato “libero” ci vedrebbe certamente soccombenti.
Comunque, il governo italiano, nel quadro della Conferenza di Berlino, si è limitato a prescrivere di mettere dei fiori nei nostri cannoni, con aggiunte, amenissime, sul fatto che i nostri soldati non andranno, essendo “soldati di pace”, a proteggersi da eventuali attacchi o operazioni di rottura della possibile tregua, ma faranno magari da “messi comunali” o da ufficiali di Polizia Giudiziaria, per notificare gli scontri militari a chi di dovere. Roba da procura di provincia, mentalità da avvocatini poco in carriera. Porteranno “mani pulite”, la piéce di fondazione della nostra rachitica seconda repubblica, in Libia.
Il problema, poi, è che la trattativa vera tra Al Serraj e Khalifa Haftar l’hanno già fatta altri, ovvero Turchia e Russia, il 12 gennaio scorso. Poco conta che il capo delle Forze di Tobruk e Bengasi, Haftar, si sia ritirato dal documento finale bilaterale, sul cessate il fuoco permanente, un momento prima della firma del documento.
Chi chiuderà comunque la questione, e prima di quel che si pensi, saranno solo Erdogan e Putin. Il primo, il leader turco, vuole mantenere comunque e in ogni modo il proprio spot in Tripolitania, in un futuro di condizionamenti sempre maggiori, petroliferi e per l’immigrazione, verso l’ignara (e ignava) Europa Unita. Tanto gli basta. Un condizionamento ricattatorio dal “corridoio balcanico”, che Erdogan ha già sperimentato a lungo, e ora e in futuro un “corridoio marittimo” dalla Tripolitania, che presto si farà sentire con forza.
È poi incredibile che la questione migratoria in Italia, essenziale anche dal punto di vista strategico e della sicurezza, sia stata trattata, sempre da noi in Italia, in modo così superficiale, da tutti i partiti politici in lizza. Serraj ha poi chiesto alla Conferenza di Berlino di includere anche Tunisia e Qatar. Non gli è stato consentito. Ovvio che la richiesta non sia stata accettata: si tratta di due Paesi quasi-amici di Tripoli, uno interessato alla sicurezza dei suoi importantissimi confini e oleodotti dalla Libia verso il mare tunisino e poi verso l’Italia, il Qatar invece è un sostenitore lontano, ma munifico, della Tripolitania dei Fratelli Musulmani.
Le conclusioni? Sono in linea con la tradizione delle precedenti conferenze di pace sulla Libia. Ovvero, irrilevanti.
Tutte le istanze maggiori sono state di fatto accettate nel documento finale, rendendolo, quindi, inutilizzabile per una qualche operazione sul terreno in Libia. O per una soluzione politica efficace. Un Asino di Buridano strategico. E forse era proprio questo il suo fine ultimo. Si delinea però la costituzione, che immaginiamo molto complessa e farraginosa, di un Comitato 5+5 tra il governo, chissà perché ancora riconosciuto dall’Onu, ovvero quello di Fayez Al Serraj, e la parte del LNA di Khalifa Haftar. Un organismo fatto per fallire, se rimane del tutto paritario. Le conclusioni del “Processo di Berlino” sulla Libia che si è instaurato il 19 gennaio, e ormai tutte le infinite trattative per la Libia (Parigi, Palermo, Abu Dhabi, e altre sottotraccia) si definiscono pomposamente, lo avrete certo notato, dei “processi”.
L’Unsmil, United Nations Support Mission in Libya, organizzerà poi, sempre sulla base del documento finale berlinese, un International Follow-Up Committee, che sarà costituito da elementi provenienti da tutti i Paesi e, inoltre, dalle Organizzazioni che hanno già partecipato alla Conferenza di Berlino del 19 gennaio scorso.
Una replica? Probabilmente no.
Sarà, questo incagliarsi successivo di documenti uno uguale all’altro, un modo per tenere i piedi in tutte le staffe possibili e far durare ad infinitum il conflitto libico, il che potrà nuocere stabilmente ad alcuni Paesi (come l’Italia) ma favorirne sicuramente altri, come la Turchia, la Federazione Russa e la Francia. E in Libia, come peraltro anche in Unione europea, ogni gioco oggi è a “somma zero”, il beneficio mio è equivalente al danno inferto. Le conclusioni di questo Follow Up Committee andranno direttamente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che vede interessi fortemente contrastanti rappresentati per la Libia, ma non si spiega né il come né il quando. Inoltre, le conclusioni del Comitato saranno, dovranno essere in linea con tutti i “processi” precedenti a quello appena iniziato di Berlino, “processi” che si rifanno anche, sempre detto dal documento di Berlino, anche al “programma in tre punti” elaborato da Ghassan Salamé il 30 luglio 2019.
Il progetto dello special envoy dell’Onu che è, ormai, come diceva Kant “una vescichetta”, ma riferendosi comunque all’anima immortale, riguarda in primo luogo una tregua, che è iniziata il 10 agosto 2019, per Eid-Al Adha, la Festa del Sacrificio islamica. Tutto questo rumore per una tregua di pochi giorni, che basta un Imam locale per trattare senza problemi? Mah! E poi perché riferirsi così esplicitamente a una breve tregua già svoltasi? Mistero. O, magari, si vuole dare più potere a Salamé, ma basta dirlo.
Il secondo Punto di Salamé consisteva, sempre nell’agosto scorso, nell’organizzare una Conferenza Internazionale, che è stata infatti già organizzata e chiusa a Berlino, ma con la partecipazione di tutti i Paesi interessati allo scontro in Libia. E a Berlino non erano proprio tutti. Bene, lo abbiamo già fatto, e allora? Un’altra Conferenza ancora, come quelle di Parigi, Palermo, Abu Dhabi e Berlino? Per dirsi che cosa di nuovo? Non lo si riesce a intravedere. Una Conferenza è una Conferenza è una Conferenza, come la rosa di Gertrude Stein.
Il Terzo Punto di Salamé riguarda infine una Conferenza, ci mancherebbe altro che non ce ne fosse un’altra ancora, tra i soli “partiti”, politici e militari, presenti in Libia e comunque di origine libica. Sarà la conferenza più affollata e, immaginiamo, meno efficace. E, forse, la più manesca. La tregua, in Libia come altrove, riguarda comunque la capacità, della sola parte terza e mediatrice, di rendere credibile la tregua stessa a chi vorrebbe sottoscriverla. Senza questa capacità di rivalsa efficace e immediata del “Terzo nel Diritto” (se possiamo qui usare un concetto del diritto romano) nessuno sottoscrive una tregua qualsivoglia. E poi quale è l’unico modo di far rispettare una tregua? Costruire magari una “forza di interposizione”, che rende tecnicamente più difficili le probabili intenzioni belliche e criminose delle due parti? No, perché, in questo caso, la Forza di Interposizione organizzata per tenere una tregua non può controllare gli spostamenti non-militari delle postazioni delle due parti, postazioni che diverranno comunque belliche in seguito. E, in ogni caso, se la Libia è diventata l’area di una nuova grande proxy war tra nemici, alleati e quasi-amici, tutti questi essendo esterni al quadrante libico, se fanno le tregue, tutti cominceranno certamente a dislocare i potenziali militari in nuove aree. Le tregue, in questo caso, sono un modo di fare la guerra, non di farla cessare, sia pure temporaneamente.
In sostanza, Berlino ha voluto unificare, come si dichiara candidamente nel testo finale, il sostegno internazionale per una soluzione politica in Libia. Qui, i casi sono due. O si prosegue nel balletto potenzialmente infinito delle Conferenze irresolute, composte da Paesi che non si sognano nemmeno di inviare truppe, se non da utilizzare come vigili urbani, in Libia. Oppure, si crea una vera forza internazionale, magari sotto egida Onu, che non pacifica la Libia, beninteso, ma sancisce chi vince o chi perde il potere in Tripolitania e il Cirenaica. Ma la domanda rimane: vogliamo davvero una nuova Libia smembrata tra i vari vilayet ottomani, come era prima della colonizzazione prefascista italiana, oppure vogliamo ancora davvero una Libia unita? E se sì, chi sarà il gruppo ristretto di potenze, europee o non, che gestirà la propria inevitabile egemonia sulla Libia ancora unita?
Perché non bisogna nemmeno dimenticare che esiste, da molte parti, nel vecchio “scatolone di sabbia”, un sentimento nazionale libico che si sovrappone, spesso, alla fedeltà alla propria katiba o all’alleanza storica delle varie tribù con la propria. Anche un giovane agente dei Servizi “nuovi” libici, anni fa, disse a chi scrive che il sentimento nazionale libico è forte più di quanto non si creda, anche se si mescola in modo sorprendente e quindi imprevedibile con le gerarchie tribali.
Né bisogna dimenticare l’effetto positivo che ebbe, per molti anni, il welfare autoritario instaurato da Gheddafi, che fece scrivere, alla Fondazione Bertelsmann, in un suo paper uscito pochi giorni prima dell’inizio della rivolta di Bengasi, che la Libia era mediamente molto meglio, per reddito e servizi sociali, del Meridione italiano.
Infine, anche la Conferenza di Berlino ripete che “non c’è soluzione militare possibile” per la Libia. Certo, perché la soluzione militare è già in atto, e da molti anni. E si compone di forze potenzialmente equipollenti, e con protettori equipollenti, che quindi non potranno mai mettersi davvero in accordo. Ma cum le parole non si mantengono li Stati, come diceva il Machiavelli. Né meraviglia, anche se i guadagni per ogni Paese occidentale sarebbero scarsi, l’ignavia degli occidentali.
Abbiamo, come italiani, un Paese destrutturato, che importerà e ha già importato, probabilmente, con l’immigrazione, controllata o meno, una buona quantità di jihadisti in Europa, la prossima area di destrutturazione profonda, e abbiamo anche un Paese, la Libia, per noi in Italia che, senza essere più fondamentale per il petrolio, salvo che solo per noi, rimane fondamentale per i mercati internazionali degli idrocarburi.
E allora, che si fa? Ci si ubriaca di chiacchiere e di “processi” diplomatici, in attesa che qualcuno vinca da solo, in Libia, e che detti le sue condizioni anche a noi. Naturalmente, non poteva mancare, nel documento finale della Conferenza di Berlino, la lotta al terrorismo e la emigrazione “illegale”. Intanto, non si deve mai parlare genericamente di “terrorismo”, che è una prassi universale, ma di una specifica e raffinata tecnica jihadista della guerra, che è ben diversa da quello che noi chiamiamo terrorismo, anche se certamente non lo esclude. E questo vale anche per la dottrina coranica della “tregua”, che sarebbe un argomento molto interessante da discutere qui.
Ma mi immagino che la boria intellettuale degli occidentali gli faccia credere, ai conferenzieri impenitenti, che la sola dottrina della guerra e della pace è quella che si pratica nell’ambito dell’universalismo illuminista, laicista, razionalista. Falso. La gran maggioranza della popolazione del globo, oggi, fa e pensa la guerra in modo molto diverso da quello che teorizzavano Grozio, Kant o Althusius. Per la immigrazione “illegale”, essa è in effetti un sistema di guerra asimmetrica, come peraltro il jihad “della spada”, vale fare una analisi meno moralistica-giuridica. Chi vince, manda i migranti illegali verso i propri nemici o concorrenti economici o militari, chi perde se li prende tutti, e deve stare anche zitto.
È mai stato immaginato, dai governi italiani, il perché della potentissima guerra informativa e di defamation sull’Italia, con tanto di Ong costruite ad hoc, nel periodo del governo detto “giallo-verde”? Credete che i nostri amici della UE siano estranei a queste questioni? No di certo.
Infine, il documento finale del “processo di Berlino” si riferisce, oltre che all’embargo per tutte le armi, del tutto inutile visto che la Libia è piena come un uovo di armi, e tutti se le possono comunque procurare da sud, alla “eguale ripartizione delle ricchezze”, non si capisce bene tra chi, ma si intuisce qui la questione, molto complessa, del rapporto tra la NOC, la Banca Centrale Libica e il LNA di Khalifa Haftar.
Infine, si parla di “legittimo uso della forza”, da concedere solo agli Stati (o allo Stato). Quale Stato, in Libia? La Tripolitania, che è ormai ridotta a qualche quartiere di Tripoli, con alcune delle katibe di Misurata, l’asse militare del regime di Al Serraj, già passate ad Haftar, oppure quello di Tobruk-Bengasi, per cui combatte Haftar, che ha vinto le elezioni ma non è stato riconosciuto dalle potenze esterne e dall’ONU?
Chi è davvero legittimo? Ardua domanda, anche se si pensasse solamente, come usa oggi tra le potenze occidentali, ad una legittimità politica e statuale che viene semplicemente octroyèe dai Paesi dell’Ovest o dalla “vescichetta” dell’Onu. E, allora, quanti sono gli Stati legittimi in Africa? Anche qui, un’ardua domanda.
Sarebbe bene ritornare ai classici, da Hobbes a Spinoza. Anche sotto il sole feroce della Libia, come quando Lawrence d’Arabia leggeva Svetonio (ovviamente in latino) cavalcando il suo cammello nel Wadi Rumm.