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Dossier Iran, il petrolio regge ma attenzione a Hormuz. Il richiamo di Clò

I mercati del greggio per ora tengono, ma domani? Secondo Alberto Clò, economista, ex ministro dell’Industria nel governo Dini e nel cda di varie società quotate (Eni, Finmeccanica, Italcementi, Iren e ASM Brescia, Atlantia, Snam.), tra l’altro direttore responsabile di Rivista Energia, il trend del prezzo del greggio dimostra che tutto sommato i mercati non hanno reagito negativamente tanto agli attacchi in Arabia Saudita quanto alla crisi tra Iran e Usa. Ma ciò non è purtroppo sufficiente a disinnescare tutti i rischi.

Il trend del prezzo del petrolio nel brevissimo periodo dipenderà in larga parte solo dalla prossima mossa degli Stati Uniti?

Già a poche ore dall’attacco in Iraq avevo previsto che i prezzi del greggio sarebbero rimasti abbastanza stabili: in effetti sono aumentati di niente e in seguito sono anche calati. Esattamente come accaduto dopo l’attacco all’Arabia Saudita nel settembre scorso.

Per quale ragione?

A causa della grande abbondanza di petrolio che è sui mercati internazionali. Già nei mesi precedenti si era manifestata con una depressione dei prezzi, spingendo i paesi produttori Opec e quelli non Opec, specie la Russia, il 6 dicembre scorso a ridurre ulteriormente la produzione di 0,5 milioni di barili al giorno rispetto agli 1,2 a suo tempo decisi, portando quindi la riduzione complessiva a 1,7 milioni di barili al giorno con l’Arabia Saudita disponibile a ridurre di altri 400 mila barili al giorno. Per cui accanto all’abbondanza di offerta c’è una capacità inutilizzata. Di qui esiste la disponibilità dei sauditi, di fronte al precipitare delle cose, di mettere mano all’abbondanza.

Come giudica allora la reazione non negativa dei mercati?

Ma essa non ci ripara da nulla. Non si può escludere in prospettiva che il precipitare degli eventi abbia una dimensione impattante sull’offerta. Senza voler fare dell’allarmismo ingiustificato, dovremmo riflettere sulla possibilità che lo stretto di Hormuz venga bloccato. In quel caso cosa faremmo?

Il tema relativo alla sicurezza delle infrastrutture petrolifere dopo gli attacchi in Arabia Saudita dello scorso settembre come influisce nel quadro complessivo?

L’Arabia Saudita era il garante della stabilità del sistema mediorientale e, quindi, di quello internazionali. Gli attacchi hanno dimostrato la sua vulnerabilità in virtù di una decina di droni del valore di pochi soldi capaci di mettere fuori uso la produzione giornaliera di 10 milioni di barili al giorno. Questo fatto di cronaca, accaduto nonostante l’acquisto di sistemi di difesa dagli Usa, ha mutato il ruolo che il Paese ha sempre svolto grazie alla sicurezza delle sue infrastrutture.

Mentre i prezzi dell’olio salivano seppur di poco, il prezzo delle azioni Aramco scendeva: che connessione vede con la crisi in Iran?

Vorrei ricordare due elementi: che Aramco è stata quotata alla Borsa saudita e che l’Arabia Saudita è stata in grado di rimettere in sesto la sua produzione con una rapidità quasi eccessiva, anche forse per rassicurare sulla propria capacità di risposta in vista della quotazione di Aramco, che ha avuto un enorme successo in termini di capitalizzazione, visto che i suoi 1900 miliardi sono stati il doppio di Amazon.

Cosa vuol dire quel dato?

Che l’hardware conta più del software, nonostante i fondi internazionali avessero inizialmente snobbato quella quotazione.

I nuovi gasdotti come incideranno nel dossier energetico?

Mi sembra che in questo frangente si dica tutto e il contrario di tutto. Delle due l’una: o sosteniamo convintamente il green deal e in quel caso il consumo di gas crollerà per via di una logica conseguenza e non di una previsione, oppure dovremmo ridiscutere l’impegno prioritario della Commissione Europea da 260 miliardi di euro aggiuntivi. Mi chiedo poi chi pagherà le infrastrutture senza dimenticare che si continua ad allungare i termini della questione e dal 2020 Bruxelles è passata al 2030 e poi improvvisamente al 2050. I conti non tornano.

Perché?

Bisogna fissare un quadro programmatico che abbia il maggior numero possibile di certezze, altrimenti le imprese non investiranno. Inoltre sento parlare di aumento di biometano e di idrogeno mentre al contempo scontiamo un sistema infrastrutturale al momento sotto utilizzato. Sommando il TurkStream da 16 miliardi di metri cubi, al Tap, al Nord Stream 2 e all’Eastmed, arriviamo a circa 90 miliardi di ketri cubi di gas attivati in pochissimi anni. Chi li comprerà se la domanda crollerà? Vedo un’enorme incongruenza tra ciò che si sostiene politicamente e la dinamica effettiva dei mercati.

twitter@FDepalo

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