Quello che Donald Trump ha presentato al mondo non è solo un piano per ristabilire la pace e l’equilibrio nella più turbolenta arena territoriale del mondo, quella israeliana-palestinese, ma è qualcosa di più. È un netto tentativo di lasciare un’eredità in politica estera; è un potenziale elemento di riequilibrio o squilibrio in una regione complicata. Formiche.net ha contattato il direttore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, Paolo Magri, per una lettura ampia del progetto trumpiano.
Che significato dare al “piano del secolo”, come viene definito da sempre il progetto con cui l’amministrazione Trump vorrebbe mettere fine alla più complicata contesa territoriale della storia?
Il cuore del piano Trump è costituito essenzialmente da uno scambio che alla parte palestinese viene chiesto di accettare: la legittimazione definitiva di quello che è lo status quo consolidato da anni all’interno dei Territori occupati in cambio di una contropartita sostanzialmente economica.
Qual è lo status quo di cui parliamo?
Lo status quo odierno corrisponde di fatto ai principali obiettivi perseguiti da Israele: sovranità completa su Gerusalemme, riconoscimento di quasi tutte le colonie nei Territori, creazione di uno Stato palestinese a sovranità limitata (privo di esercito e privo del controllo effettivo dei propri confini) e definitiva archiviazione del diritto dei rifugiati palestinesi all’estero di rientrare in Israele. Quello che viene chiesto ai palestinesi è praticamente di rinunciare a qualunque pretesa di modificare in futuro tale realtà. In cambio viene offerta loro una contropartita economica, rappresentata dal quel fondo di investimento di circa 50 miliardi di dollari proposto al termine della Conferenza di Manama, in Bahrein, nel giugno scorso.
“Questo non è un accordo di pace, ma una bantustanizzazione della Palestina e del popolo palestinese”, ha detto a Reuters il capo della delegazione palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot. È una forma con cui si paragonano i territori che spetterebbero al popolo palestinese a quelli che il regime sudafricano assegnò ai cittadini di origine africana durante gli anni dell’Apartheid. L’accordo non ha la firma palestinese: arriverà mai?
I palestinesi si trovano in una situazione assai difficile, e in particolare la loro leadership, divisa e delegittimata all’interno e isolata nella comunità internazionale. Soprattutto la gente comune ha da tempo sviluppato sentimenti di grande disillusione sia rispetto ai propri leader, sia nei confronti di quegli alleati internazionali – in primis i Paesi arabi e l’Europa – che in passato li hanno sostenuti. Ciò ha portato in questi anni al consolidarsi di una sostanziale apatia politica tra i palestinesi, di cui è sintomo, ad esempio, la scarsa partecipazione popolare alle prime proteste indette dalle principali organizzazioni politiche palestinesi dopo l’annuncio di Trump.
Quali spazi e possibilità in Palestina?
Se nei prossimi mesi nel campo palestinese non si riuscisse a coagulare un movimento di protesta con ampio sostegno popolare, difficilmente la leadership palestinese potrà mantenere l’attuale linea di opposizione totale al piano Trump, soprattutto se quest’ultimo dovesse essere rieletto il prossimo novembre.
Quali potrebbero essere le conseguenze di ricaduta del “piano” sul quadro regionale?
Sul piano regionale nell’immediato le ricadute sarebbero limitate, soprattutto perché ormai da tempo la questione palestinese non è più al centro dei giochi politici mediorientali. Le attuali divisioni che attraversano il Medio Oriente oggi si giocano su altri fronti, come la Siria e la Libia, e con dinamiche perlopiù indipendenti dalle evoluzioni del conflitto israelo-palestinese. Sicuramente questo piano andrebbe a rinforzare la retorica di quegli Stati tradizionalmente opposti alla politica statunitense nella regione, come l’Iran, ma difficilmente vedremo ricadute più concrete, almeno nel breve termine.
E zoomando più sui Paesi interessati più da vicino?
L’effetto del lancio del piano Trump potrebbe però avere ricadute più limitate ad alcuni Paesi, come ad esempio la Giordania, la cui leadership si trova oggi in grande difficoltà. La monarchia hascemita si trova infatti in una delicata posizione. È divisa tra il rischio di nuove proteste popolari in caso di accettazione del piano – dopo quelle del biennio passato che ne hanno incrinato gravemente la popolarità. Dall’altra parte c’è il rischio di un collasso dell’economia, fortemente dipendente dal sostegno statunitense, se re Abdallah dovesse decidere di opporsi ai piani dell’amministrazione Trump.