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Popolo vs élite. Il libro di Sacconi e la versione di Giorgetti

Élite, dal latino “éligere”, scegliere. Questa, l’etimologia insegna, dovrebbe essere la funzione delle élite, altrimenti note come “classi dirigenti”. Scegliere il meglio per il popolo, la classe media, la gente comune, insomma chi élite non è. Sulla carta è così. Nella realtà, oggi fra élites e “popolo”, nelle società occidentali ma non solo, si è creata una insanabile frattura. A chi dare la colpa? Globalizzazione? Crisi economica? Rivoluzione tecnologica? Non è facile puntare il dito su un solo imputato. Si possono invece studiare le cause di questo abisso, e magari interpretarne gli effetti di lungo periodo. Ci prova l’ultimo libro curato dall’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi (che ne firma l’introduzione), “Popolo ed Élite” (Marsilio Editore), un compendio di saggi di autorevoli autori riuniti attorno all’associazione Amici di Marco Biagi, da Gianfranco Polillo a Eugenia Roccella, da Luca Antonini ad Alfredo Mantovano.

Presentato presso la sede di Unioncamere di Roma con il vicesegretario della Lega Giancarlo Giorgetti, il ministro della Salute Roberto Speranza e il giornalista del Corriere della Sera Antonio Polito in una sala gremita, anche di volti noti della politica, tra cui gli ex due colleghi Giovanni Tria e Massimo Garavaglia, già ministro e viceministro dell’Economia con il governo gialloverde, il volume è un viaggio in profondità alle radici dei due fenomeni chiave per leggere in controluce oggi l’Occidente: l’élitismo da una parte, il populismo dall’altra.

Lanciato da Polito dopo una breve introduzione di Sacconi, il duo Giorgetti-Speranza si è subito preso la scena, a pochi giorni dalla madre di tutte le elezioni regionali in Emilia-Romagna e la più discreta tornata in Calabria. “Parla per primo chi ha vinto” scherza Polito. “Io mi ritengo vincitore – gli chiosa in risposta Giorgetti. Il numero due del Carroccio si lascia andare a un piccolo sfogo post-voto. “Popolo? Sarebbe meglio mettere nel titolo ‘populismo’. Il popolo quando sceglie in un modo è bravo, quando si esprime nel modo opposto è da condannare, è il prezzo da pagare in una società post-ideologica”. La frattura fra popolo ed élite sta tutta qui, dice Giorgetti, nell’uso di due pesi e due misure. “Accettiamo il responso elettorale in ogni caso o talvolta è inaccettabile? Accettiamo un governo legittimamente eletto o quando prende decisioni non gradite all’Ue deve essere chirurgicamente rimosso?”.

Come è fatta, allora, una buona élite? Il vicesegretario federale illustra il modello Lega, o almeno il suo, con due parole chiave racchiuse nel libro: “pensiero lungo”. “È questo il cuore del problema. Pensare sul lungo periodo implica una responsabilità. Che si può declinare in tanti modi, anche prendendo oggi decisioni impopolari che possono dar frutto sul lungo termine”. Il governo non è più “il luogo dove si decide”, pensa ad alta voce Giorgetti, e “i migliori non intendono impegnarsi e restano fuori dalla dimensione pubblica”.

L’analisi rimane sul piano della politologia ma non sfugge a nessuno il sottofondo di cronaca. Il pensiero lungo, dopotutto, è da sempre il Giorgetti-pensiero, e forse un po’ meno quello del leader Matteo Salvini, formidabile mattatore di piazze e social network ma meno incline alle riflessioni di ampio respiro. Come sempre, il vice fa scudo al segretario. Sulla legge elettorale, ad esempio, quando difende la proposta maggioritaria leghista (cassata dalla Corte Costituzionale): “Dobbiamo evitare di fare errori clamorosi, trovare un sistema per portare in Parlamento persone scelte dal popolo e possibilmente con competenze adeguate”.

L’incontro sul ring con Speranza, che arriva a piazza Sallustio spossato dall’emergenza Coronavirus che da due settimane impegna giorno e notte il ministero, è più docile del previsto. Forse perché il ministro su popolo ed élite, anche se dall’altra parte della barricata, la pensa come Giorgetti. Speranza non ci gira intorno: élite oggi è la sinistra italiana (e il Partito democratico). Anche il bilancio delle elezioni in Emilia-Romagna, che hanno riconfermato governatore il dem Stefano Bonaccini, non è proprio roseo. “È sempre più evidente che chi ha fatto della lotta alle diseguaglianze una battaglia storica oggi ha difficoltà enormi. La mia parte politica oggi spesso coincide con le élite. Abbiamo smesso di rappresentare i quartieri operai e popolari”.



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