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Così Russia e Cina si infilano nella strategia Usa in Medio Oriente

La mattina del 9 gennaio il cacciatorpediniere americano “USS Farragut” è stato avvicinato in modo “aggressivo” da una nave della marina russa mentre conduceva operazioni di routine lungo lo Stretto di Hormuz. La Quinta Flotta ha messo il video dell’incidente sugli account ufficiali del comando.

Si scrive “incidente” perché è il termine tecnico con cui vengono definite queste circostanze, ma di incidentale c’è ben poco. La mossa della nave russa è stata cercata col fine di creare un’azione di disturbo in un’area sensibilissima. Una settimana prima, infatti, un Reaper americano ha sganciato due missili Hellfire contro due auto che viaggiavano lungo la strada per l’aeroporto di Baghdad. Nell’attacco era stato ucciso Qassem Soleimani, un generale iraniano dal potere immenso, considerato il numero due del regime.

Il giorno precedente all’incidente invece, l’8 gennaio, gli iraniani si erano vendicati colpendo con una salva di missili balistici due basi irachene contenenti personale occidentale, tra cui anche americani. Nell’attacco non è morto nessuno, e neanche questa è stata una circostanza incidentale: Teheran ha colpito per non colpire, ossia ha fatto in modo di bersagliare aree sicure di quelle basi.

Un morto americano – o italiano, tedesco, francese, inglese – avrebbe significato escalation sicura. E invece tutt’altro. Sia gli Stati Uniti che l’Iran hanno mostrato la volontà di far scendere rapidamente i toni, e forse anche a questo si deve l’ammissione di responsabilità sulla tragedia del volo PS752 – oltre al fatto che ormai per gli iraniani era diventato impossibile non ammettere la propria colpevolezza davanti a un pattern di informazioni tecniche e prove dirette mostrate a tutto il mondo.

Su questo piano di de-escalation si è inserita la Russia, che insieme alla Cina è uno dei pochi interlocutori della Repubblica islamica. Mosca non vuole crisi profonde, né tantomeno guerre nella regione. D’altronde è stato lo stesso consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense a dire, in un’intervista ad Axios, che dopo l’eliminazione di Soleimani l’Iran sembra più disponibile a nuovi negoziati. Non sfugge la componente propagandistica del messaggio, ma se si vuol restare ai fatti sembra evidente che Teheran non abbia trovato protezioni importanti – leggasi Russia e Cina – per un’escalation, e anche per questo si è fermata alle schermaglie.

Mosca e Pechino però hanno interessi in una penetrazione strategica nella regione mediorientale, e lo fanno anche dimostrando la loro presenza militare – come quando, poche settimane fa, hanno compiuto la prima esercitazione congiunta con l’Iran davanti al Golfo dell’Oman, ossia qualche miglia nautica a sud di dove è avvenuta la manovra aggressiva russa contro il Farragut.

I russi – anche i cinesi ma meno platealmente – non disdegnano l’idea di mantenere il livello di ingaggio a bassa intensità. E infatti le navi russe non sono nuove a certe attività, a Hormuz come altrove. E lo stesso vale per i Pasdaran, che hanno molto da perdere da una guerra aperta, ma molto da guadagnare (in termini di consenso, e dunque di interessi interni) da un ingaggio continuo.

Restando sul mondo nautico, qualche settimana fa le imbarcazioni dei Pasdaran hanno dimostrato lo schema: sempre tra le acque di Hormuz, i barchini rapidi dei Guardiani iraniani si sono infilati in mezzo ai mastodonti del gruppo da battaglia della “USS Lincoln” per disturbare la capoclasse delle missione di sicurezza nel Golfo a guida americana (missione rese necessarie dopo una serie di sabotaggi a firma presumibilmente iraniana durante l’estate scorsa).

Per allargarsi al fronte iracheno, nonostante sia Teheran che Washington abbiano dimostrato la volontà di non andare oltre con la crisi, le milizie controllate dai Pasdaran continuano a lanciare razzi contro le basi che ospitano gli occidentali. Attacchi minori, utili a una narrativa interna, che diventano però fronti multipli problematici per gli americani.

Alzando il piano a un livello più politico, non è un caso se i corridoi del governo iracheno, il cui rapporto con gli Stati Uniti è stato messo in forte crisi dal raid contro Soleimani, in questi giorni sono pieni di funzionari governativi e lobbisti russi e sopratutto cinesi. Vogliono intavolare un dialogo forte, e lo scopo principale è entrare all’interno della catena di forniture – da quelle militari a quelle industriali – nel tentativo di sostituirsi agli americani, non tanto per il business ma per portare avanti una penetrazione politica.

È questa la ragione per cui gli Stati Uniti non possono lasciare l’area. Lasceranno l’Iraq se richiesto dal governo di Baghdad, ma sarà un dietrofront parziale. Un po’ come successo in Siria, e sulla stessa traiettoria di quello che sta succedendo in Afghanistan. Un ritiro completo – sebbene per il presidente Donald Trump sarebbe un successo da rivendere in campagna elettorale sulla scia di vecchie promesse – avallerebbe i piani ad excludendum che rivali come Russia e Cina stanno orchestrando nei confronti degli americani.

D’altronde la crisi con l’Iran è stato un elemento che ha allargato le distanze che negli ultimi due, tre anni si sono create all’interno del blocco transatlantico. Con l’Ue che è rimasta dentro all’accordo sul nucleare Jcpoa, ma incapace di gestire la situazione dopo l’uscita statunitense. Distanze che si sono materializzate nella creazione di due parallele missioni di sicurezza nello Stretto di Hormuz. Distanze che aprono spazi, all’interno dei quali i rivali di Usa e Ue si infilano rapidi come i barchini dei Pasdaran.

Su un altro dossier caldissimo come quello mediorientale, la crisi libica, si è materializzata nuovamente la mancanza di compattezza europea e il distacco statunitense e si è aperto uno spazio politico (e militare) sfruttato dalla Russia stavolta in accoppiata con la Turchia. Russia e Cina, con partner come Iran e Turchia aprono fronti multipli e sfide sempre più complesse.


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