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Teheran fa i conti con il consenso (scarso)

“Misure proporzionate di legittima difesa nel rispetto dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”. Con queste parole di moderazione il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha commentato l’azione militare notturna condotta dalla Forze Armate di Teheran contro obiettivi americani in territorio iracheno.
Sono parole politicamente significative e sono parole di equilibrio, quindi sono parole che possiamo accogliere con cauta soddisfazione, poiché preludono ad uno scenario che potrebbe tenersi lontano dal quello tragico di una escalation mortale su larga scala.

Però sono anche parole che segnano l’estrema debolezza del regime degli Ayatollah, debolezza che pochi in Occidente sono disposti a cogliere per quel diffuso senso di colpa (in larga parte immotivato e privo di solidi riscontri storici) che anima buona parte dei commentatori europei e nordamericani.

Proviamo allora a chiarire un po’ meglio questo aspetto, visto peraltro che tutti o quasi preferiscono concentrarsi sulle più o meno chiare intenzioni strategiche del Presidente Trump.

La debolezza del regime di Teheran è ben evidente sotto almeno quattro punti di vista, strettamente intrecciati tra loro e tutti dagli effetti piuttosto importanti per l’intero sistema di potere iraniano.

Punto primo: c’è un fronte interno tutt’altro che sotto controllo. I funerali a Kerman, città natale del generale Soleimani, sono stati sospesi dopo incidenti che hanno portato alla morte di almeno 50 persone, segno di una gestione della piazza caotica e non priva di contraddizioni. A ciò va aggiunto l’ormai cronico disamore di gran parte della popolazione (giovani in testa, soprattutto nelle città) verso un regime dispotico che usa la religione come strumento rigido di controllo sociale ed economico, generando però più scontento che approvazione.

Punto secondo: il mondo islamico si è ben guardato dallo schierarsi dalla parte di Teheran. Certo, hanno speso parole in loro difesa il leader di Hezbollah in Libano Hassan Nasrallah e il presidente siriano Assad, così come si è pronunciato il Parlamento dell’Iraq (con le assenze dei membri sunniti e curdi) e una certa solidarietà è giunta dal Qatar. Ma è ben evidente il silenzio assordante dei grandi paesi a maggioranza sunnita, Arabia Saudita e Egitto in testa, così come non vi è traccia di esplicito sostegno da altri importanti protagonisti della scena mussulmana, come Giordania, Algeria, Marocco, Turchia, Emirati Arabi e Indonesia.

Punto terzo: nemmeno le gradi potenze hanno mostrato particolare vicinanza a Teheran. Non la Cina, non l’India, non la Russia, non i più importanti paesi africani. Certo, nessuno dei soggetti che contano in Asia o in Africa ha speso parole di sostegno all’amministrazione Usa, ma aspettarsi questo sarebbe stato onestamente eccessivo (mentre invece lo ha fatto Israele, il che spiega alcune delle freddezze riscontrate altrove).

Punto quarto: il mondo Occidentale e, più in generale, lo schieramento degli alleati storici di Washington (in cui gli estimatori di Trump sono meno numerosi dei critici) ha tenuto una posizione quasi neutra, che però non ha concesso mai parole di appoggio all’Iran (così Giappone, Australia, Brasile e così via). È la linea europea e, tutto sommato, italiana. Una linea che suscita scarsi entusiasmi da parte americana ma che non consente all’Iran di contare nuovi amici in giro per il mondo.

Vedremo cosa accadrà, perché fare previsioni adesso è davvero poco sensato. Però se a Teheran prevarrà una linea di forte realismo questo sarà anche figlio dello scarso appoggio trovato sin qui.

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