Dal giorno della sua morte sono passati esattamente sessant’anni, eppure il suo nome continua a riecheggiare fortissimo nel dibattito politico ed economico del nostro Paese. Il 27 febbraio del 1960 si spegneva ad Aigle, in Svizzera, Adriano Olivetti, uno dei più grandi imprenditori della storia del capitalismo italiano, simbolo di quel miracolo economico al quale oggi guardiamo sempre di più con nostalgia e rimpianto.
Era l’Italia del prodotto interno lordo che cresceva a una media del 5,9% l’anno e dell’aumento in doppia cifra delle esportazioni, l’Italia che scopriva le automobili, gli elettrodomestici e la televisione. E, appunto, anche l’Italia di Adriano Olivetti. “È stato un grande industriale italiano, un imprenditore molto capace che si dimostrò abilissimo a utilizzare lo schema fordista classico e a innovarlo dall’interno”, ha commentato Paolo Bricco – firma del Sole 24 Ore ed esperto di sistemi e politiche industriali – che in questa conversazione con Formiche.net ha spiegato perché a distanza di così tanti anni il nome di Adriano Olivetti sia ancora tanto evocato nel nostro Paese. E quali siano oggi i principali ostacoli che si frappongono allo sviluppo dell’industria italiana, che anzi appare in declino inesorabile: “Per cominciare credo si debba sgomberare il campo dai sentimentalismi e dalle ricostruzioni fumettistiche: spesso il suo ricordo viene appiattito sulle esperienze politiche, culturali ed estetiche che non furono secondarie ma che non consentono di cogliere appieno il suo ruolo. Che è stato soprattutto quello di un grande imprenditore capace di innovare e di progettare e dotato anche di una rilevante capacità di radicalismo nel cambiare le cose. Questa è la più importante eredità che ci ha lasciato”.
Una vicenda, la sua, indissolubilmente legata ai destini dell’impresa di Ivrea a cui Bricco ha dedicato due libri – “Olivetti, prima e dopo Adriano” edito da L’Ancora del Mediterraneo e “L’Olivetti dell’ingegnere” edito dal Mulino – oltre a numerose pubblicazioni scientifiche: “La sua capacità di innovare lo schema fordista, ad esempio, si rivelò nella cura sopraffina per il disegno industriale oppure nell’utilizzo all’interno delle fabbriche di competenze non prettamente tecniche. Mi riferisco ai numerosi intellettuali che all’epoca frequentavano Ivrea: in realtà lavoravano non con Adriano Olivetti ma per la Olivetti. Non era una sorta di Atene, non si trattava di mecenatismo, erano lavoratori e collaboratori dell’azienda a cui affidò funzioni come la gestione del personale, delle relazioni industriali, della pubblicità o dell’ufficio stampa”. Scelte pionieristiche per le imprese dell’epoca a dimostrazione della capacità di visione di Olivetti che con i suoi prodotti, oltre a macinare record e risultati economici, contribuì a rilanciare il marchio del Made in Italy nel mondo. Come nel caso della Divisumma 14, la prima calcolatrice al mondo in grado di eseguire le quattro operazioni: “Si stima che avesse un margine operativo lordo intorno all’80%. Il che vuol dire che per ogni 100 lire del prezzo di vendita il costo industriale equivaleva a 20. In pratica 80 lire erano tutte di margine. Una condizione di straordinaria efficacia sul mercato”.
Capacità di visione, dunque, e di intuire e anticipare le nuove frontiere tecnologiche: “Negli anni ’50 diede carta bianca al fratello Dino e al figlio Roberto per il primo sviluppo della grande elettronica. L’Olivetti, però, fu soprattutto un campione tecnologico nel settore della meccanica”. E poi la dimensione dei diritti, anch’essa assolutamente innovativa: “All’interno del meccanismo organizzativo dell’azienda era avvertita in modo netto la necessità di contribuire a una sorta di emancipazione culturale, prima che sociale ed economica, dei lavoratori, nella convinzione che così avrebbero contribuito meglio al lavoro della fabbrica”. Ma no, al contrario di quanto a volte si dice, l’Olivetti dell’epoca non era un’azienda orizzontale: “È un falso storico, come tutte le imprese fordiste era fortemente gerarchizzata”.
Un campione nazionale in un Paese in quella fase all’avanguardia dal punto di vista industriale: “C’erano le invenzioni di Giulio Natta alla Montecatini, c’era la Pirelli, c’era la Fiat. E c’era l’Iri, negli anni 50 ancora in un momento di grande sviluppo e lontano da quella deriva – alimentata dalla politica e dal sindacalismo – che portò alla fine alla sua liquidazione. Un’Italia dalle potenzialità e dalle risorse straordinarie”. E poi cos’è successo? “Nel 1992 Mario Pirani scrisse un famoso articolo per il Mulino e parlò di approdo mancato. Ecco io credo che se avessimo perseverato su quelle linee di sviluppo avremmo avuto un destino industriale e dunque anche sociale, culturale e politico molto diverso”. Una constatazione che fa aumentare il rimpianto per ciò che poteva essere ma che alla fine non è stato: “La nostalgia non è un crimine, ci mancherebbe altro, soprattutto in una situazione complicata come quella che stiamo vivendo attualmente. C’è una dimensione di sogno e di progetto che oggi è totalmente assente. E la conseguenza quasi inevitabile è che si vadano a coagulare grandi nostalgie verso personalità forti e visionarie come quella di Adriano Olivetti“.
Anche perché il passato difficilmente torna: “Non credo ci siano le condizioni storiche affinché quei fenomeni si possano ripetere: il contesto è irreversibilmente cambiato. In quel momento eravamo parte integrante dell’occidente che oggi probabilmente neppure esiste più. In quel momento eravamo il Paese cerniera tra il blocco capitalista e il blocco comunista, mentre oggi è in corso una rimodulazione degli equilibri internazionali in virtù della quale contiamo pochissimo e conteremo sempre di meno sullo scacchiere geopolitico internazionale”.
Ma quindi cosa può fare l’Italia per invertire la rotta? “Bisogna trovare strade assolutamente diverse: la politica e l’industria sono chiamate a fare ognuna il proprio mestiere cercando di cooperare e collaborare nell’elaborazione di scenari e di policy comuni. Ma davvero penso che ci troviamo in una terra di incognita”. Resa ancor più fosca dall’assenza di progetti e di visioni, quelli di cui l’Italia degli anni ’50 invece abbondava come la storia di Adriano Olivetti conferma: “L’Italia non ha scenari industriali, non ce l’hanno le classi dirigenti in particolare quelle pubbliche. È questo il problema principale”. E dire che le strade che si potrebbero seguire sono numerose: “Si possono fare politiche industriali in tanti modi, non solo collocando le risorse – che in questo momento scarseggiano – ma anche, ad esempio, definendo i settori in cui si deregolamenta o in cui si decide di alleggerire la burocrazia”. Ma ciò non avviene, a prevalere è sempre la logica del giorno per giorno che evidenzia tutti gli attuali limiti delle classi dirigenti italiani: “Si tende a ragionare sul brevissimo periodo mentre bisognerebbe pensare al Paese nel 2030, nel 2040”. E l’Italia intanto continua a navigare a vista. Ricordando e rimpiangendo chi come Adriano Olivetti ha contribuito a rendere grande il Paese.