L’epidemia di coronavirus in Cina inizia a rallentare: i morti ad oggi sono 565 ed i contagiati sono circa 28.000 a, anche se bisogna vedere quanti dei 200.000 casi sospetti poi daranno esito positivo. E, infatti, i giornali, per la prima volta dopo parecchi giorni, non aprono con notizie sul coronavirus confinato in terza o quarta posizione. Per fortuna, tutti i virus hanno comportamenti “autoimmuni” per cui tendono ad annullarsi anche senza interventi farmacologici (in fondo, anche quando non esistevano rimedi di sorta, nella storia, le epidemie finivano ad un certo punto). Qui, a quanto pare, siamo di fronte ad un virus debole sia per aggressività (maggiore della Sars, ma pur sempre più modesta di molte altre epidemie), sia per durata (il rallentamento si sta verificando dopo circa un mese dal “paziente zero”) sia per letalità che si aggira intorno al 3% di decessi dei contagiati. Nel complesso, il contagio è stato circoscritto alla provincia dell’Hubei e le draconiane misure di quarantena adottate da Pechino sembrano aver funzionato.
Dunque è probabile che ce la caveremo con danni umani piuttosto limitati: meno delle vittime della normale influenza annuale o di malattie endemiche come il morbillo. Questo non significa che, se il caso dovesse rientrare in due o tre settimane, che si sia trattato di una meteora destinata a non lasciare tracce.
In primo luogo già si profilano le conseguenze economiche: caduta severa del volume d’affari nel turismo, nella ristorazione e nella moda, ma segnali di rallentamento giungono anche dal manifatturiero in genere a causa del rallentamento dell’import- export fra Cina ed Europa (per gli Usa c’erano già altri guai). Ed in una situazione già al limite (a causa della Brexit e delle difficoltà del bancario) per cui si inizia a parlare di recessione europea per il 2020.
Questo è abbastanza normale in casi di epidemie, ma qui c’entrano anche le reazioni che abbiamo avuto. I governi occidentali hanno trattato questo caso come se si trattasse di una pandemia, ma i fatti dicono che di questo non si tratta.
Quasi tutte le compagnie aeree europee hanno cancellato i voli dalla e per la Cina (non accadde nemmeno ai tempi della Sars), si sono bloccate alcune importazioni da quel Paese, richiamati i residenti occidentali lì presenti, nell’Oms si è parlato di rischio globale. In Italia si è deciso addirittura lo stato di emergenza per un semestre ed il ministro della Sanità Speranza ha dichiarato che tratteremo questa epidemia come il colera del 1973, quando i casi in Italia, fra Napoli, Bari e Palermo furono oltre 300 con 36 morti mentre, nello stesso giorno dell’annuncio dello stato di emergenza, in Italia c’erano 2 casi certi ed 1 sospetto.
Ovviamente è giusto prendere delle misure di prevenzione, ma si può parlare di “rischio globale”? È evidente la sproporzione fra il rischio effettivo e l’entità delle misure prese che vanno decisamente al di là di quelle prese per le precedenti epidemie in epoca recente (e pensiamo all’Ebola in Congo, ai casi di colera in Sudan, Alla Sars, alla aviaria ecc.). Di fatto, sono state le stesse istituzioni ad alimentare la psicosi da contagio, generando un allarme sociale che va al di là dell’effettivo pericolo. E questo sta già modificando (per ora in misura limitata) i comportamenti individuali: la gente sta di più in casa e si osserva una caduta di consumi come quelli in ristorante, a cinema o sul turismo (come dicevamo). E questo avrà dei costi per la nostra economia, perché sono misure che hanno un effetto depressivo.
C’è chi pensa che questo sia stato voluto per aumentare le difficoltà dell’economia cinese. È possibile che anche questo abbia contribuito, ma è ragionevole pensare che, se anche fosse così, non si è trattato della ragione principale. Questo caso si sta rivelando l’epifania di una fragilità della nostra epoca: il carattere ansiogeno della nostra società. Un ventennio di terrorismo globale ha lasciato il suo sedimento nell’ansia sociale diffusa che già covava dal decennio precedente: tutto è diventato più frenetico dagli anni novanta, i ritmi di vita e di lavoro si sono fatti sempre più veloci, siamo oberati da continue scadenze fiscali, contrattuali, amministrative, la crisi del 2008 ha ingenerato un profondo senso di insicurezza sul posto di lavoro e sui risparmi. Il tutto, mentre una campagna martellante batteva sul tema della sicurezza, ma, paradossalmente, l’ossessione securitaria ha prodotto un crescente senso di insicurezza generalizzato.
Tutto questo, ha una ulteriore ricaduta nell’abbassamento del tasso di resilienza delle nostre società: ogni evento assume proporzioni maggiori di quelle che effettivamente ha e le reazioni sono spesso sbagliate.
A fine anno inizieremo a fare i conti delle conseguenze di questa sproporzione fra rischio e misure di prevenzione e non solo in termini economici, ma anche politici e sociali.