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Vi spiego cosa c’è dietro la mossa cinese sui dazi. Parla Guerrieri

Sarà per il Coronavirus che ne ha paralizzato l’industria, o forse l’effetto della tregua commerciale siglata con gli Stati Uniti a inizio anno. Fatto sta che la Cina ridurrà della metà i dazi doganali su alcuni prodotti importati dagli Stati Uniti, a partire dal 14 febbraio. In altre parole, le tariffe del 10% imposte su alcuni prodotti americani saranno ridotte al 5% mentre altri sottoposti a tasse del 5% subiranno un’imposizione del 2,5%.

Pechino sta vivendo un momento particolarmente difficile. Quasi certamente il Pil cinese verrà pressoché dimezzato dall’epidemia nel primo trimestre. E con le fabbriche ferme, allentare un pochino la valvola delle merci in ingresso è quasi una mossa obbligata. Ma è possibile che dietro la mossa cinese ci sia forse una scelta politica precisa? Formiche.net ne ha parlato con Paolo Guerrieri Paleotti, economista della Sapienza, membro della Brookings Institution con un passato da senatore dem, nella passata legislatura.

Professore, cosa c’è dietro la mossa cinese? Il Coronavirus o è solo la naturale conseguenza dei patti stretti con l’America?

Direi più il primo. La scelta di abbattere le tariffe su una tale mole di beni importati, è dettata dal virus ed è una mossa per dimostrare buona volontà al mondo e agli Stati Uniti. Come a dimostrare che l’emergenza Coronavirus ha messo Pechino nell’impossibilità di rispettare i patti commerciali con gli Usa, quelli della fase 1 per intendersi. Un qualcosa per dire ‘ecco, siamo in una situazione difficile, veniteci incontro, abbassate la posta’. Questa sembrerebbe essere la chiave.

Insomma, un modo per rivedere al ribasso l’accordo di gennaio…

Sì perché lo stock di 200 miliardi di beni americani che la Cina era tenuta a comprare, era già sovrastimato e ora con le difficoltà cui stiamo assistendo, le fabbriche ferme e intere regioni in quarantena, onorare questo accordo è ancora più difficile. Di qui, una mossa per tentare di ammorbidire gli Stati Uniti verso un accordo più sostenibile per la Cina alle prese con l’epidemia. La Cina, insomma, chiede agli Usa di fare un passo avanti, per venirle incontro.

E secondo lei Donald Trump come reagirà?

Non è detto che venga incontro a questa mossa cinese, perché l’atteggiamento di colpire la Cina appartiene a un vasto ambiente nella politica americana, anche democratico. La risposta americana dipenderà da cosa serve a Trump. Non mi meraviglierebbe che il presidente rispondesse con poco entusiasmo. E comunque, prima di smantellare tutto il meccanismo dei dazi, ce ne vorrà.

Il Coronavirus non può essere a questo punto un problema solo cinese. Lei che ne pensa?

Se l’emergenza rimarrà tutto sommato circoscritta come sta accadendo oggi, allora la Cina lascerà sul campo due punti di Pil nel breve periodo, mentre sul lungo, la crescita 2020 di Pechino cadrà di un punto. Il problema è che per ogni punto in meno di crescita cinese, il mondo paga uno 0,2% in meno. Ma se invece il Coronavirus sfugge al controllo, allora le conseguenze sarebbero molto più serie e di andrebbe molto più in là in termini di perdite di Pil.

Il picco dell’epidemia è previsto per marzo. Sarà lì che si capirà il destino della Cina?

Sì, da quel momento capiremo essenzialmente una cosa: se il Coronavirus potrà essere sconfitto oppure no.

Pochi giorni fa, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, Trump ha ribadito un concetto: l’economia americana non è mai stata così forte. Lei è d’accordo?

Sono d’accordo sul fatto che lo stimolo fiscale dato da Trump (il taglio delle imposte sui profitti societari, ndr) ha avuto un effetto significativo, quando non si pensava che avvenisse, visto che l’economia americana era già in espansione prima della riforma. Trump è stato capace di creare crescita aggiuntiva e qui allora il presidente ha ragione. Tuttavia su un’altra questione non ha ragione.

Sarebbe?

Non ha ragione nell’affermare che tale stimolo fiscale abbia rimesso in moto gli investimenti delle imprese. Questi investimenti non ci sono stati perché paradossalmente da un lato ha sì stimolato la spesa pubblica e dunque la crescita ma dall’altra, e torniamo ai dazi, Trump ha alimentato il conflitto con la Cina mediante guerra commerciale, il che ha innescato grande incertezza sui mercati e nelle scelte industriali. Insomma, si è stimolato il Pil ma si è creata anche grande incertezza. Lo dicono i numeri, oggi in America gli investimenti sono cresciuti del 3%, contro il 6% del 2018.

 

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