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Che cosa cambia dopo la condanna Ue sui ritardati pagamenti. L’analisi di Balducci

Il 28 gennaio di questo anno la Corte di Lussemburgo ha emesso una sentenza di condanna-ammonizione (la condanna non prevede nessuna sanzione) dell’Italia per inadempimento della direttiva 7 del 2011 emanata ai sensi del trattato Ue, direttiva che contrasta i ritardi nei pagamenti in particolare nei pagamenti delle Pubbliche amministrazioni.

La condanna-ammonizione è il risultato di una iniziativa della Commissione Ue che si era attivata a seguito di vari solleciti da parte di fornitori della nostra amministrazione che avevano difficoltà a farsi pagare in tempi ragionevoli (30 o 60 giorni). A seguito di tali solleciti la Commissione ha scritto una lettera di messa in mora all’Italia il 19 giugno del 2014. L’Italia (che ha recepito la direttiva con il Dlgs 192 del 2012) risponde enucleando tutti provvedimenti normativi presi per ridurre i tempi di attesa dei pagamenti dovuti (tra l’altro il decreto legge 145/2013 convertito in legge con la legge 9/2014 che prevede la possibilità di compensare i debiti tributari con i crediti certi nei confronti delle pubbliche amministrazioni).

Evidentemente, nonostante questi provvedimenti, la situazione non risulta sanata. La cosa avrebbe dovuto suonare un campanello di allarme. La Commissione richiede all’Italia nell’agosto 2014 una relazione bimestrale sui tempi di attesa per i pagamenti delle pubbliche amministrazioni. E qui si evidenzia un secondo elemento che avrebbe dovuto suonare un secondo campanello di allarme. I dati forniti dall’Italia sono incompleti (riguardano solo le fatture pagate e non quelle in attesa) e non corrispondono ai dati prodotti da ricerche realizzate da Assobiomedica (145 giorni), Ance (156 giorni) e dal Sole 24 Ore (687 giorni).

Qui vogliamo soffermarci sul fatto che l’evidente buona volontà del legislatore italiano non riesce a risolvere il problema dei ritardati pagamenti. Se ne deve dedurre che i provvedimenti legislativi prodotti non incidono sulle reali cause del fenomeno dei ritardati pagamenti. La condanna-ammonizione della Corte del Lussemburgo deve essere presa come un sollecito all’Italia ad affrontare il problema con un approccio diverso e più mirato. Non sembra che l’ammonizione-sollecito stia avendo il risultato sperato.

Il fatto è che si sa benissimo quale è la causa dei ritardati pagamenti della nostra amministrazione: un sistema contabile assolutamente inadeguato. Da tale sistema contabile inadeguato deriva tutta una serie di gravi disfunzioni: innanzi tutto la impossibilità di utilizzare la contabilità come strumento conoscitivo e, poi, la grande difficoltà di utilizzare la contabilità come strumento di guida della spesa pubblica. La nostra contabilità pubblica si è venuta consolidando negli anni ‘70 e ’80 dell’800, quando il bilancio statale rappresentava il 4%del Pil (oggi è al 47% del Pil) e quando il 78% di questo bilancio era destinato a spese militari (oggi non si arriva al 2% del bilancio destinato a spese militari). Questa semplicità quantitativa e qualitativa giustificava una contabilità molto semplice. Gli assi portanti di questa contabilità sono due:

1) si tratta di una contabilità sostanzialmente di tipo giuridico, di competenza (che registra le cifre che si ha il diritto di riscuotere e quelle che si ha il dovere di pagare) e non di una contabilità di cassa (che registra quanto si è effettivamente riscosso e quanto si è effettivamente pagato)

2) si tratta di un sistema organizzativo in cui i responsabili della erogazione dei servizi (lavori pubblici, sociale, sanità etc.) non gestiscono le risorse finanziare che sono gestite da una struttura organizzativa separata, la ragioneria. Queste due caratteristiche non sono rintracciabili in nessun altro paese Ocse. La contabilità pubblica è ovunque esclusivamente di cassa e i responsabili della erogazione dei servizi hanno il loro budget. Nella nostra amministrazione il sevizio di ispettorato (istituito negli anni ’70 dell’800) della finanza pubblica è progressivamente passato da una funzione di controllo e supervisione ad una funzione di effettiva gestione della risorsa finanziaria. Anche qui siamo di fronte ad un unicum non rintracciabile in nessun altro paese Ocse.

Queste due caratteristiche (contabilità giuridica e non gestione dei flussi di cassa reali e separazione dell’attività di erogazione dei servizi dalla gestione della risorsa finanziaria) determinano una “cultura amministrativa” tutta italiana: il dirigente non si preoccupa troppo del costo di quello che fa e non si preoccupa dello sfasamento temporale tra diritto a riscuotere e riscossione reale e tra dovere di pagare e pagamento effettivo. Il ritardato pagamento delle fatture passive ricevute dalla nostra amministrazione è riconducibile a questa cultura. Qui forse può valer la pena di rammentare che l’Amministrazione della Slovacchia paga una fattura passiva in cinque giorni lavorativi.

Formalmente questa situazione avrebbe dovuto essere cambiata radicalmente a partire dalla legge 42 del 2009 e dai decreti legislativi di attuazione (Dlgs 91/2011 relativo alle amministrazioni centrali, Dlgs 118/2011 relativo alle amministrazioni regionali e locali, Dlgs 18/2012 relativo alle università). Di fatto del Dlgs 91/2011 si è persa traccia. Da 4 anni si sta tentando di implementare il Dlgs 118/2011 nelle amministrazioni comunali con scarsi risultati. Qui non si riesce a trasferire la responsabilità della gestione delle risorse finanziare dalla ragioneria al dirigente o funzionario responsabile della erogazione dei vari servizi.

La mancata assunzione della responsabilità finanziaria da parte dei responsabili dell’erogazione dei servizi non determina solo lungaggini nei pagamenti ma anche danni finanziari alla amministrazione stessa. Emblematico è il caso dei servizi sociali erogati dai comuni (si noti che nell’Italia del Centro e del Nord oramai questi servizi cubano tea il 20% e il 30% delle spese correnti dei comuni). Gli assistenti sociali passano più della metà del loro tempo lavorativo a stendere progetti per i loro utenti; la stragrande maggioranza di questi progetti non può però essere realizzata perché la ragioneria segnala che non ci sono fondi. In alcuni comuni della Toscana il costo del tempo/uomo speso per fare elaborare progetti che poi non possono essere fatti fa sì che il costo dell’erogazione di un contributo superi il 55% del valore del contributo erogato. Questo spreco sarebbe evitato se i singoli responsabili dell’erogazione del servizio avessero la responsabilità del loro budget, così come previsto dal Dlgs. 118/2011.
L’ammonimento/sollecito della Corte di Giustizia del Lussemburgo dovrebbe essere occasione di un ripensamento ab imis della nostra amministrazione.


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