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Anche Vodafone chiude le porte al 5G cinese. La partita geopolitica

Un divorzio da record: 200 milioni di euro nei prossimi cinque anni. A tanto ammonta la cifra che Vodafone dovrà pagare per eliminare dalla parte core della sua rete 5G in Europa tutte le apparecchiature di Huawei, il colosso della telefonia mobile cinese con base a Shenzen, accusato dagli Stati Uniti di spionaggio e legami con il Partito comunista cinese. A darne annuncio il Ceo di Vodafone Nick Read presentando in conferenza stampa i dati del terzo trimestre, che hanno fotografato una crescita del 6,8% dei ricavi per un ammontare di 11,75 miliardi di euro.

L’operazione segue il parziale divieto imposto dal governo britannico di Boris Johnson sulla presenza di Huawei nella parte “core” della rete 5G, e, ha assicurato il Ceo, avrà “un impatto finanziario limitato” sulle casse della compagnia d’Oltremanica.

Vodafone non rimuoverà l’equipaggiamento Huawei dalle parti non-core della rete di ultima generazione già installata in Europa, ovvero le antenne e le torri radio. A meno che, ha spiegato Read, gli altri Stati europei non intendano apporre anche su queste restrizioni alla presenza di Huawei, come ha fatto il governo di Londra, che ha previsto un tetto del 35% per l’equipaggiamento made in China.

In quel caso la realizzazione del 5G europeo da parte di Vodafone potrebbe subire da 2 ai 5 anni di ritardo sui piani. “Saremmo costretti a reinvestire il denaro che usiamo per lo sviluppo del 5G per rimpiazzare l’equipaggiamento e questo comporterà dei ritardi”. Un’ipotesi da scongiurare, ha aggiunto Read: “Gli Stati uniti sono avanti nell’installazione, la Cina anche”.

Al momento nessun Paese europeo ha disposto l’esclusione di Huawei né dalla parte core né dalla parte non-core della rete. La Commissione Ue la scorsa settimana ha pubblicato il “5G Eu toolbox”, l’insieme delle linee guida per gli Stati membri per garantire la sicurezza della banda ultra-larga con una serie di accorgimenti, fra cui lo screening degli investimenti diretti esteri e l’introduzione di una normativa sul perimetro di sicurezza nazionale cibernetica, già approvata in Italia con il decreto cyber, senza però alcun riferimento alla diretta esclusione delle aziende cinesi.

Questo mercoledì il responsabile per l’Europa di Huawei Abraham Liu ha dichiarato che l’azienda considera “tutti i Paesi Ue come possibili sedi per strutture produttive in futuro”. Gli occhi dell’azienda cinese sono puntati in particolare sull’Italia, dove “Huawei si sta impegnando a una presenza sul lungo periodo”.

La decisione di Vodafone rischia di avere un impatto non secondario sulla presenza di Huawei nel mercato del 5G europeo. L’azienda londinese è uno dei principali operatori europei, alla fine di luglio 2019 ha avviato il roaming della rete 5G in Spagna, Regno Unito, Germania e anche in Italia, dove per prima ha inaugurato la sperimentazione a Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna.

È il secondo colpo alla presenza di Huawei in Europa che arriva dal settore privato. Una settimana fa un altro fra i maggiori operatori europei, la francese Orange (ex France Telecom), ha scelto le due principali competitors di Huawei, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia, per costruire la sua rete 5G.

“Vodafone parla di un basso impatto economico, ma 200 milioni di euro non sono pochi – spiega a Formiche.net Emanuela Girardi, presidente di Pop Ai (Popular Artificial Intelligence) e membro della European Ai alliance. Dopotutto le regole imposte da Downing Street, inizialmente lette oltreoceano come un sostanziale semaforo verde a Huawei, hanno già prodotto i loro effetti, e sono più severe di quelle vigenti in Ue, che al momento si è fermata a una raccomandazione della Commissione (atto non vincolante).

“Il limite del 35% alla presenza di Huawei nella rete non-core non è secondario, perché di fatto preclude all’azienda cinese buona parte delle infrastrutture, compresi alberi, antenne e la stessa fibra dove scorre il traffico di dati”, dice Girardi, che fa parte della Commissione di esperti del Mise per l’Intelligenza artificiale.

Lo sa bene British Teleocm (Bt), che a seguito delle misure prese dal governo ha annunciato una perdita di 500 milioni di sterline nel prossimo quinquennio. Perché? Semplice, “nel 2016 ha acquistato EE, azienda che aveva appaltato l’intera infrastruttura 4G a Huawei, e ha iniziato il rollout del 5G con un uso non secondario di tecnologia Huawei”.

È un rischio che corrono tutte le aziende europee del settore telco, e non sono poche, che hanno fatto ricorso alla tecnologia cinese per la rete 4G. Costruire la rete 5G sull’infrastruttura 4G esistente è un risparmio non indifferente, spiega Girardi: “Il 5G ha frequenze base molto diverse, quindi le base-station devono essere cambiate, ma è molto più semplice fare l’upgrade”.

La partita geopolitica prevale sui tecnicismi, conclude l’esperta: “Sia il Regno Unito che la Commissione Ue si stanno riposizionando di fronte agli Stati Uniti; sono in corso i negoziati sulla web tax e sui dazi, la questione di Huawei va inserita in un quadro geopolitico più ampio”.

Se il bando tout-court delle aziende cinesi dalla rete 5G europea chiesto dal governo americano è ben lontano dall’essere realizzato, una parziale convergenza strategica fra le due sponde dell’Atlantico si può già intravedere. Questo mercoledì il segretario inglese alla Cultura Nicky Morgan ha annunciato che il Regno Unito è “molto determinato” a individuare, con l’aiuto degli alleati, “un altro fornitore di equipaggiamento 5G”. Un riferimento non velato a Nokia ed Ericsson, che anche gli Stati Uniti vogliono ora far subentrare a Huawei nella gestione della banda ultra-larga, assieme a compagnie statunitensi come Microsoft, Dell, AT&T.


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