Qualcosa si muove attorno alla questione della rinascita di Roma. Sono cadute le incertezze, i silenzi interessati, i camuffamenti: la città vive, nel giudizio ormai di tutti, la sua fase di maggiore depressione dal dopoguerra ad oggi. Cade anche, però, l’alibi di un’opposizione generica e confusa, senza una proposta alternativa, senza un disegno politico capace di convincere e mobilitare. Se qualcosa si muove è perché i 150 anni di Roma Capitale non possono passare sotto traccia, con qualche modesta cerimonia rievocativa.
Ora bisogna dire con chiarezza, fuori da uno schema di facili pregiudiziali, che la recente iniziativa assunta dal Campidoglio è stata una sorpresa e non da poco. La manifestazione al Teatro dell’Opera, svolta con successo lunedì 3 febbraio (qui e qui le foto di Umberto Pizzi), ha evidenziato la volontà del sindaco, signora Virginia Raggi, di introdurre un colpo di fantasia.
In tale circostanza, grazie alla “linea” dei Cinque Stelle, si è capovolto infatti lo schema delle celebrazioni: non più la “Roma laica”, con il suo fulgore di orgoglio e superiorità rispetto alla vecchia “Roma clericale”, ma il Vescovo di Roma – papa Francesco – che inaugura, per il tramite del Cardinale Segretario di Stato della Santa Sede, l’anno dei festeggiamenti, dando il via al grande dibattito sul passato e sul futuro della Capitale.
Nessun sindaco, men che meno se di appartenenza democristiana, ha mai potuto compiere un passo tanto ardito. È una novità che non sopraggiunge all’improvviso, essendo un pallido ricordo, fortunatamente, il clamore delle cerimonie a sfondo anticlericale “à la Nathan”. Con questa amministrazione si rompe tuttavia il velo di prudenza che da sempre implica una qualche “diplomatizzazione” di ciò che ruota attorno alla rievocazione di Porta Pia.
In questa cornice, seguendo il ragionamento di Andrea Riccardi, si può dire che alza messaggio di papa Francesco è stato altrettanto poco diplomatico. Ha parlato, appunto, da Vescovo della città rivendicando il ruolo pastorale, e quindi anche civile, della Chiesa e delineando un impegno – laici e credenti uniti – per fare di Roma un centro mondiale di fraternità.
Sarebbe miope non cogliere l’impatto di questa nuova ricerca di collaborazione, destinata a incidere sulla condotta delle forze politiche romane e nazionali, quando in effetti la ricetta per i “mali di Roma” sta proprio nel superamento di obsolete linee di frattura.
Nel ‘74, allorché la Chiesa provò a definire un’ambiziosa piattaforma di rinnovamento, non fu chiaro chi dovesse assumere la fisionomia dell’interlocutore privilegiato: pertanto un certo livore antidemocristiano provocò – e questo Riccardi non lo riconosce – l’illusione che i cattolici a Roma potessero esprimersi solo nel sociale, con le buone opere, senza un adeguato respiro politico.
Illusione ancora viva oggi, nonostante la scomparsa della Dc da oltre cinque lustri, e tanto più forte quanto più è riuscita a permeare di sé la vita democratica nazionale. Sì tratta, in conclusione, di uscire da questa trappola che ha bloccato la riconfigurazione del rapporto tra identità e pluralismo, striando di neo-clericalismo l’impegno generoso dei cattolici.