Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, durante la conferenza internazionale sulla sicurezza in corso a Monaco, ha lanciato una vera e propria offensiva diplomatica nei confronti degli alleati europei ed extraeuropei, tesa fondamentalmente a sminuire le impressioni di divisioni all’interno del fronte atlantico, emerse negli ultimi mesi soprattutto in merito allo scenario mediorientale (questione iraniana in testa) e alla Russia, e rafforzate da alcuni interventi in seno alla conferenza stessa.
Le divergenze in seno allo schieramento occidentale, ha sostenuto Pompeo, “ci sono sempre state”, ma sono fondamentalmente “tattiche” su come reagire a minacce la cui gravità percepita da tutti. In definitiva l’aspetto importante di cui tener conto è, per il Segretario di Stato, il fatto che “l’Occidente vince e noi vinciamo insieme”.
Sono parole che per molti versi sembrano rovesciare l’approccio piuttosto rude adottato da Donald Trump nei confronti dell’Europa e degli alleati Nato a partire dalla sua elezione alla Casa Bianca.
Ma fino a che punto esse possono essere interpretate come un segno di ottimismo da un lato, come una mano tesa agli europei dall’altro?
Per comprenderle bene, occorre innanzitutto considerare che Pompeo ha risposto, in quella sede, innanzitutto al discorso del presidente tedesco Steinmeier, che aveva appena accomunato la politica estera statunitense a quella cinese e russa come produttrice di instabilità globale. E, parimenti, alle dichiarazioni del presidente francese Macron, che aveva sostanzialmente approvato le parole di Steinmaier.
La reazione di Pompeo appare dunque, più che una dichiarazione di ottimismo, in primo luogo come la riaffermazione della profonda differenza, per gli interessi europei, tra la strategia americana e quella di altre potenze non occidentali. Il Segretario di Stato americano cerca, insomma, di ricordare agli alleati che l’espansione dell’influenza russa e cinese e la corsa iraniana al nucleare rappresentano evoluzioni molto pericolose per tutto l’Occidente, e gli Stati Uniti costituiscono ancora per loro la maggiore protezione contro questi pericoli.
A tale proposito Pompeo parla di “attacchi alle sovranità” che “portano destabilizzazione e povertà”, e sottolinea, riferendosi in particolare all’Iran, che Stati Uniti e alleati europei hanno una “comprensione reale della minaccia”, pur differenziandosi nelle proposte su come affrontarla. Traduzione dal gergo diplomatico: siamo di fronte ad antagonisti da non prendere sottogamba, e se questo succederà voi europei sarete i primi a pagarne le gravi conseguenze. Non ottimismo quindi, ma anzi polemica e severa messa in guardia.
Conseguentemente, ciò che nelle dichiarazioni del responsabile Usa per gli esteri appare come una maggiore disponibilità verso il punto di vista degli europei è in realtà un forte richiamo alla disciplina, all’allineamento sulle posizioni americane. E ciò vale per le tendenze alla cedevolezza verso i disegni nucleari iraniani, per le aperture alla tecnologia cinese nelle comunicazioni 5G e ai progetti infrastrutturali della “Nuova via della Seta”, per l’adesione tedesca al progetto di gasdotto “Nord Stream 2” con la Russia. Tutte decisioni che per l’amministrazione Trump rivestono una valenza strategica cruciale.
E che il discorso di Pompeo sia suonato, appunto, come un richiamo all’ordine è dimostrato dal successivo intervento di Macron: un tentativo, come al solito ingegnoso ma acrobatico, di avvalorare ancora una posizione geopolitico-strategica dell’Ue connessa, ma distinta da quella americana (ed in cui naturalmente la Francia assumerebbe una funzione di leadership).
Insomma, dietro una parvenza più “morbida”, Trump vuol far passare invece agli alleati un messaggio molto chiaro e drastico: si sta definendo una nuova, grande sfida per il potere globale in cui interessi vitali statunitensi sono in gioco e l’Europa è in prima linea, e non sono dunque ammesse, oggi meno che mai, defezioni. Gli Stati Uniti sono ancora disposti a fare la loro parte per la sicurezza europea, allontanando tentazioni di disimpegno, ma esigono dagli interlocutori d’oltreatlantico l’accantonamento di furbizie e distinguo multilateralisti.
Si tratta dell’esplicitazione di un rapporto che osservatori platealmente antitrumpiani come Sergio Romano (nel suo commento di oggi sul Corriere della Sera) descrivono come quello proprio di un’alleanza “moribonda”, in cui l’Europa si va – per lui finalmente – autonomizzando dagli interessi nazionali (nazionalistici) statunitensi. Ma che, a ben guardare, è la fotografia di un “grande gioco” di potenza mondiale in cui l’Europa conta invece sempre meno, e si trova sempre più in bilico tra una fedeltà atlantica decisamente subordinata e l’esposizione a rinnovati disegni di potenza “euroasiatici”.