Come sarà la ripresa economica dopo il coronavirus? In seguito alle misure fiscali a sostegno dell’economia e delle famiglie contenute nel decreto Cura Italia e dopo la definizione delle attività essenziali che potranno continuare a essere aperte successivamente alla nuova stretta del governo, resta da affrontare un tema fino a questo momento forse poco esplorato. Dopo il fermo, le imprese, piccole o grandi che siano, riusciranno a reggere l’urto? L’avvocato Stanislao Chimenti docente di Diritto commerciale e partner dello studio internazionale Delfino Willkie Farr&Gallagher spiega in una conversazione con Formiche.net i rischi a cui le nostre aziende saranno esposte e quali possono essere gli strumenti da mettere in campo per scongiurarli.
Il decreto Cura Italia ha predisposto misure, per lo più fiscali, a sostegno dell’economia e delle famiglie che ha suscitato talune perplessità. Ritiene siano sufficienti o si prospettino problematiche più gravi?
Le misure in questione forniscono una primissima assistenza per taluni settori e relative alla grave e improvvisa crisi di liquidità. Ora però è necessario proteggere il tessuto imprenditoriale del Paese sotto altro profilo. Le imprese sono state colpite improvvisamente non tanto e non solo da una violentissima crisi di illiquidità, quanto piuttosto da una violentissima crisi che ha spazzato via interi settori della domanda. In particolare, sono stati travolti tutti i settori che per la produzione e la fornitura di beni e servizi rendono necessario il lavoro a contatto e lo spostamento non solo delle persone impiegate nel lavoro, ma anche dei consumatori dei beni e dei fruitori dei servizi. Tutto ciò ha stravolto completamente non tanto le esigenze di cassa delle aziende, ma ha profondamente sconvolto la loro stessa struttura interna, il loro stesso posizionamento sul mercato.
Lei ritiene plausibile uno scenario di insolvenze di massa?
Non solo plausibile, ma più probabilmente già in atto se non adeguatamente e immediatamente contrastato. Il problema si pone già oggi per tutti i settori travolti dalla crisi che, dopo il cd. “fermo macchine”, dovranno ripartire. Qualsiasi impresa, dal piccolo commerciante alla grandissima impresa di costruzioni o alla fabbrica automobilistica, si troverà a dover fronteggiare le immediate richieste di pagamento di tutta la platea dei propri fornitori. Ma è evidente che nessuno sarà in grado di reggere un simile urto giacché gli ordinativi di materie prime e di prodotti erano stati programmati e formalizzati prima dello scoppio della pandemia, sulla base di un ben diverso scenario non solo relativo alla disponibilità di cassa, quanto piuttosto di natura industriale. Se la domanda crolla, l’impresa avrà serie difficoltà a reggere l’urto e stare sul mercato in termini competitivi. L’impossibilità di tali imprese di fare fronte regolarmente alle obbligazioni assunte provocherà a catena danni e crolli anche sui suoi creditori i quali a loro volta, in un inevitabile effetto domino, si troveranno nell’impossibilità di onorare i propri debiti.
Ma come si giunge esattamente a una crisi addirittura sistemica?
Il punto da comprendere è questo. Il tessuto imprenditoriale del Paese è costituito di connessioni apparentemente remote, ma in effetti fortissime. Le filiere produttive italiane sono realtà molto complesse che è errato pensare come isolate. Sappiamo bene come la crisi di un’azienda che fabbrica, ad esempio, bottoni possa procurare gravi danni non solo alla maison di moda ma anche a chi ha fornito la materia prima per quegli stessi bottoni, e comunque all’intero indotto.
La crisi odierna è pero, semplicemente inedita.
Esatto, mai nella storia del Paese e del mondo si è assistito a una simile crisi da pandemia. La letteratura sino a oggi aveva coniato le categorie di crisi industriale, finanziaria, successoria. Ma tutte queste definizioni sono inappropriate alla situazione attuale. La crisi da pandemia rappresenta un vero unicum per una ragione evidente: essa colpisce in modo orizzontale e immediato il fattore produttivo più importante di tutti: il capitale umano. Le regole di distanziamento sociale sono incompatibili con la produzione e col consumo della maggior parte dei beni e di molti servizi. Una simile situazione, ripeto, è del tutto nuova, perché non si è prodotta neppure in stato di guerra; lì, di volta in volta, sono stati colpiti taluni settori della produzione e talune fasce della popolazione, anche in tempi diversi. Una pandemia colpisce tutti e in modo trasversale e contestuale, in Italia e, come vediamo, per definizione, nel mondo.
Ritiene che il nostro sistema giuridico abbia gli strumenti per gestire una simile novità?
Lo stato di insolvenza è ancorato a situazioni obiettive (incapacità dell’impresa di far fronte alle proprie obbligazioni con mezzi ordinari di pagamento) e in linea generale prescinde dalle ragioni che lo abbiano cagionato. Ma nel nostro caso si aprirebbe un ulteriore problema: giacché la crisi è, come detto, sistemica, è presumibile che i Tribunali vengano letteralmente sommersi da azioni legali individuali, e da istanze di fallimento. A quel punto, giacché la competenza territoriale si radica sulla base della sede delle imprese (effettiva o nominale poco importa) si rischia di creare, almeno inizialmente, una grande difformità di orientamenti giurisprudenziali circa la rilevanza della Covid – 19 sulla crisi/insolvenza dell’imprenditore.
Quali sono le possibili soluzioni allora?
È necessario a mio avviso rimanere nel solco delle ultime riforme: anticipare gli interventi per quanto possibile, prima che la crisi diventi irreversibile. Se alla ripresa l’imprenditore dovesse essere costretto a gestire e affrontare le richieste di pagamento e le relative azioni legali sarebbe sicuramente presto o tardi travolto. La legge fallimentare conosce già il concetto di c.d. automatic stay, cioè di blocco temporaneo di ogni azione esecutiva e giudiziaria individuale a tutela del patrimonio dell’imprenditore che voglia accedere a talune procedure di risanamento dell’impresa (si veda quanto proposto in tema di concordato preventivo, di accordi ex art. 182 bis. l.f., ecc.).
Tali “benefici”, tuttavia, allo stato sono appunto prodromici e funzionali a una procedura di natura più o meno concorsuale.
Cosa fare quindi?
Occorre allora studiare un intervento normativo che preveda un meccanismo analogo di sospensione/blocco temporaneo delle azioni esecutive e legali, ma per tutte le imprese, tenuto conto della natura eccezionale e inedita della crisi da pandemia. L’intervento normativo è inevitabile perché, allo stato, gli strumenti previsti dal nostro ordinamento sono inadeguati e non consentono di ottenere questo risultato. Ovviamente sarà necessario approntare soluzioni dal punto di vista tecnico che risolvano il problema senza però contemporaneamente prestarsi ad abusi o sperequazioni. Si tratta di una sfida complessa che però è necessario raccogliere al più presto. Mi sia consentito infine un’ultima notazione
Prego.
Il Decreto Cura Italia prevede l’istituzione di un fondo di garanzia per le imprese in difficoltà. Ma il regolamento di attuazione (lettera B.1, punto 4, lettera e) prevede che il beneficiario non debba, fra l’altro, essere assoggettato ad “accordi stragiudiziali o piani asseverati ai sensi dell’art. 67, comma 3, lettera d) della legge fallimentare […] o ad accordi di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182 bis della medesima legge”. Tale previsione tuttavia non è condivisibile. I piani attestati e ancor più gli accordi ex art. 182 bis l.f. infatti non sono procedure concorsuali e non presuppongono uno stato di insolvenza. Si tratta piuttosto di fattispecie negoziali tra impresa in crisi e creditori, di natura certamente peculiare, che prevedono il riscadenzamento e/o la ristrutturazione della debitoria sulla base pur sempre di un accordo, ancorché all’interno di peculiari procedimenti. È dunque auspicabile che, in sede di conversione del decreto, la legge di conversione preveda opportuni emendamenti per sopprimere tali limitazione e ampliare così la platea di soggetti ammessi al fondo di garanzia.