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Coronavirus, cosa (non) abbiamo da imparare dalla Cina. Parla Luca Pani

Da dodici a diciotto mesi, forse due anni. Tanto serve ancora per trovare un vaccino in grado di debellare il Covid-19. Parola di Luca Pani, che di medicine e vaccini se ne intende, essendo stato direttore generale dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco). Oggi è professore ordinario di Farmacologia e Farmacologia all’Università di Modena e Reggio Emilia e di Psichiatria Clinica all’Università di Miami, un luminare del settore. In questa conversazione con Formiche.net racconta origine, natura e direzione del virus che sta terrorizzando il mondo. L’Italia ha optato, in ritardo, per l’opzione più dura, ma anche l’unica possibile. Per la sperimentazione clinica serve ancora tempo. C’è molto da imparare, ma non dalla Cina: “non ci può insegnare niente, almeno in questo campo”.

Professore, l’Oms ha ufficialmente dichiarato il Covid-19 una pandemia. Cambia qualcosa?

In termini formali e sostanziali cambia parecchio. Quando un’epidemia si trasforma in una pandemia, la differenza maggiore risiede nel fatto che più governi sono coinvolti nel tentativo di prevenire la progressione della malattia e, potenzialmente, curare le persone che ne sono affette. Per questi motivi una pandemia è anche una condizione più “politica” di un’epidemia, perché richiede azioni coordinate globali e un altro livello di cooperazione, oltre che di competenze, da parte dei governi. Ma c’è un’altra differenza.

Quale?

Le agenzie regolatorie come la Fda negli Stati Uniti o l’Aifa in Italia, possono iniziare a rilasciare “autorizzazioni d’emergenza” che consentono ai medici di utilizzare farmaci al di fuori del loro uso approvato. Faccio notare che gli algoritmi di intelligenza artificiale avevano previsto che Covid-19 sarebbe diventata una pandemia almeno 5 giorni prima dell’annuncio dell’Oms.

Si poteva evitare di arrivare a tanto, in così poco tempo?

Non sono un virologo o un epidemiologo e quindi mi astengo da fare commenti dettagliati sulla biologia dell’agente infettante ma da psichiatria e da ex Dg dell’AIFA mi pare evidente che una serie di comportamenti umani in presenza di una minaccia globale di questa portata non siano stati (e ancora non siano) calcolati e modellati con l’attenzione che meritavano.

Isolarsi è l’unica soluzione?

Comportamenti istintivi come l’isolamento sociale sono efficaci nell’ostacolare la diffusione e persistenza di malattie infettive ed è quanto, giustamente, raccomandano gli esperti. Tuttavia, ci sono almeno tre fasi che determinano l’adesione della popolazione a queste raccomandazioni. In una prima fase l’infezione resta endemica nonostante la messa in atto di importanti cambiamenti comportamentali a livello individuale, il che è frustrante e, in qualche modo, lascia all’individuo il pericoloso dubbio che ciò che è stato detto non sia vero; in una seconda fase soprattutto se certi comportamenti diventano dominanti a livello di popolazione, l’epidemia può rallentare al punto da sembrare finita, il che è auspicabile, ma pericolosamente falso.

Dalla terza siamo ancora molto lontani. O no?

La terza è quella in cui si ottiene l’eliminazione di una malattia sino a quel momento pandemica grazie a comportamenti permanenti come l’uso di vaccinazioni efficaci di massa che, notate come è crudele la mente umana, in assenza della malattia attiva, visto il successo delle fasi precedenti, non vengono attuate su scala sufficiente dando modo al microbo di turno di sopravvivere e magari rinforzarsi sino alla prossima epidemia.

Cosa dice l’analisi delle mutazioni del virus?

Se osserviamo la piattaforma di NextStrain.org che è quella, per capirci, che ha posizionato il paziente zero europeo in Germania, si vede un “albero virale” che prende forme diverse a seconda di come l’epidemia è cresciuta e del futuro che avrà. Il fatto che abbia diverse ramificazioni che si incontrano molto in profondità significa che c’è stata una rapida espansione all’inizio dell’infezione che ha allontanato le principali famiglie virali che ora sono oltre duecento.

Si sa qualcosa di certo sulla provenienza e sul periodo in cui è avvenuto il primo salto nell’uomo?

L’analisi dimostra che in una sequenza unica di circa 30.000 basi di RNA ci sono state otto mutazioni principali molto precoci, consentendo di ipotizzare che il primo salto nell’uomo (paziente zero assoluto) sia avvenuto, in Cina, tra la metà di novembre e l’inizio di dicembre.

Quanto ancora può mutare il virus e cosa comporta la sua evoluzione?

In realtà quello che conta non è quanto muta ma quanto e dove non muta, perché non può permetterselo. Mentre le mutazioni hanno importanza nel raggruppare i virus in “superfamiglie” e nello spiegare ad esempio la loro virulenza rispetto al ceppo originario del Covid-19, la parte che non muta è essenziale alla biologia del virus ed è quella che bisogna conoscere per sviluppare una terapia e un vaccino efficaci. La virulenza precisa è però impossibile da calcolare non sapendo esattamente il denominatore (numero totale di casi infettati ma non necessariamente sintomatici).

Ci può fare un esempio?

In questo momento (ma il dato sta già cambiando mentre lo dico) sono stati segnalati circa 125.000 casi con 4.500 decessi (il 3,6 per cento) in tutto il mondo. In Italia la mortalità è pari al 6,6% ma io dubito fortemente che tutti i Paesi stiano comunicando i numeri in modo omogeneo tra loro. Il totale di individui infetti potrebbe essere di 500.000, così come anche di diversi milioni come dichiarato dal cancelliere Merkel perché non sappiamo esattamente quanti pazienti asintomatici ci siano anche se certamente sono la stragrande maggioranza.

Abbiamo capito che il virus si espande. La ricerca di una cura sta procedendo altrettanto velocemente?

Stiamo assistendo ad uno sforzo coordinato straordinario delle migliori intelligenze che lavorano sia in istituzioni e agenzie pubbliche che aziende private per trovare una cura. Come dicevo prima in presenza di un virus ad alta mutagenità bisogna trovare con certezza prima possibile il suo punto debole, quell’anello che tiene tutta la catena della sua sopravvivenza nel corpo umano. Questo richiede del tempo. In questo momento in accordo con il database di clinicaltrials.gov ci sono 49 sperimentazioni cliniche in corso in tutto il mondo che valutano terapie antivirali già esistenti e altre nuove, dai decotti a base di piante della medicina tradizionale cinese agli anticorpi monoclonali.

Si può fare una stima realistica delle tempistiche per trovare un vaccino al Covid-19?

Sia i trattamenti che i vaccini sono importanti per una risposta robusta ed efficace in una pandemia di questa gravità. I farmaci arriveranno prima perché la ricerca su prodotti per curare i coronavirus era già ben avviata durante le epidemie di Sars e Mers ma dato che, per fortuna, queste si sono estinte spontaneamente il lavoro non è mai stato completato. Però in questo mondo nulla va perduto e il candidato principale che viene da quegli studi, il remdesivir, ha appena iniziato una sperimentazione accelerata.

Quanto ci vuole per completare il lavoro?

Lo sviluppo del vaccino richiederà molto più tempo, da un anno a 18 mesi, o forse più, prima che sia disponibile su larga scala al pubblico. Una Fase 1 su 45 volontari sani è appena cominciata e richiederà circa tre mesi per essere completata. Dopo di che il possibile vaccino dovrà essere testato in un gruppo ancora più ampio per verificare se effettivamente immunizza contro il nuovo coronavirus. Ci vorranno dai sei agli otto mesi. E poi, dovrà essere prodotto su vasta scala, il che rappresenta un’ulteriore sfida. Ci vorranno quasi due anni da adesso se tutto va bene.

Il team medico dell’ospedale Pascale di Napoli ha osservato effetti positivi sui pazienti affetti da coronavirus grazie all’uso di un farmaco anti-artrite, il Tocilizumab. Crede sia presto per un protocollo nazionale che estenda la sperimentazione?

Conosco il gruppo guidato dal Prof. Ascierto, sono persone competenti dal grande intuito clinico come dimostrarono anni fa nelle terapie del melanoma metastatico e certamente fanno bene a richiedere una sperimentazione la più larga possibile non solo italiana. Non ho letto il protocollo che hanno proposto ma considerato il meccanismo d’azione immunosoppressivo del Tocilizumab suppongo che abbia a che vedere con delle complicazioni, potenzialmente letali, dell’infezione da Covid-19 e forse non con una azione antivirale diretta.

A proposito di sperimentazione, il direttore del Dipartimento malattie infettive dell’ISS Giovanni Rezza in conferenza stampa ha dichiarato che l’Italia ha “molto da apprendere” sulle “sperimentazioni cliniche condotte in Cina”. Concorda?

Mi dispiace ma non posso credere che il Prof. Rezza abbia fatto una affermazione del genere, probabilmente è stato mal interpretato.  La garanzia per i pazienti e la trasparenza delle sperimentazioni cliniche è alla base degli straordinari avanzamenti che abbiamo fatto in medicina e in particolare nella farmacologia clinica degli ultimi cento anni. L’Italia è sempre stata in prima fila da questo punto di vista sin dalla Dichiarazione di Helsinki.

In Cina come funziona?

Le agenzie esecutive cinesi, a tutti i livelli hanno regolamenti generali o specifici e si può probabilmente affermare che in Cina sia stato istituito un sistema dominato da norme amministrative e documenti legali normativi per l’arruolamento dei soggetti in sperimentazione clinica. Non mi risulta che siano mai state emanate leggi specifiche sulla protezione dei soggetti umani in sperimentazione clinica. Quindi la Cina non ci può insegnare niente, almeno in questo campo.

Il modello cinese del contenimento del virus? Neanche quello è da mutuare in Italia?

Non sono sicuro quale sia questo modello. Non sono sicuro neppure dei numeri che arrivano da diversi Paesi, Cina compresa. Chi sta fornendo questi numeri? Dove sono degli osservatori indipendenti che possano circolare liberamente e fare domande per capire come davvero questo “modello” funziona. Ancora una volta, per ragioni di narrazione individuale e di popolazione siamo portati a credere a delle storie che sono tanto suggestive quanto circondate dal mistero e dal pericolo e, in questo senso, la pandemia da Covid-19 non fa certamente eccezione. Ci sono delle iniziative, delle costrizioni e delle leggi che possono essere facilmente messe in atto in certi Paesi ma essere impossibili in altri. Come il nostro governo sta dolorosamente sperimentando sulla sua pelle, un errore dopo l’altro.

Crede che i Paesi europei e gli Stati Uniti stiano sottovalutando la portata della pandemia?

Si è quello che dicevo poco fa. Bisognerebbe avere l’umiltà di capire che ci sono forze che vanno oltre la nostra capacità di controllarle. I virus sono i padroni del mondo e lo possono dimostrare quando vogliono soprattutto se noi, quelli di noi che hanno la responsabilità di decidere, non hanno veramente idea di cosa stia succedendo. Ho sentito politici affermare che erano diventati esperti di Covid-19 perché avevano partecipato a riunioni giornaliere sull’argomento da una settimana. Se la cosa non fosse tragica sarebbe divertente.

Dove ha sbagliato la politica italiana?

In generale, gli stati psicologici dei politici sono simili alle cinque fasi comunemente riconosciute nel dolore per una notizia di salute negativa, potenzialmente letale, come sta accadendo in questo caso. Nella prima fase i politici negano la realtà (e qualche sedicente scienziato da loro una mano), poi c’è una fase di rabbia reattiva con i primi provvedimenti che, proprio perché presi in modo tardivo sono insufficienti e sbagliati. Quindi c’è una terza fase che è quella della contrattazione con le altre parti sociali coinvolte a cominciare dai cittadini a cui si chiedono grandi sacrifici ed è la fase in cui stanno entrando ora molti paesi, Italia compresa. A queste seguirà la tristezza e la delusione se per esempio, e non me lo voglio augurare, le strategie precedenti fallissero, come sono fallite sino ad ora.

La messa in quarantena di un intero Paese spaventa i cittadini, le imprese, l’intero tessuto economico. È l’unica strada per uscirne o c’è una via più graduale?

I dati sono chiari, per questa particolare pandemia, per la sua velocità, per l’aggressività verso i più deboli che i più giovani non sembrano aver capito, almeno con le buone maniere, l’unico modo è il distanziamento e l’isolamento sociale. Dobbiamo quindi entrare il prima possibile nell’unica fase utile che è quella dell’accettazione della realtà e che avrebbe dovuto richiedere misure molto più rigide sin da principio unitamente a una comunicazione istituzionale più autorevole, invece del presenzialismo narcisista cui continuiamo ad assistere. Il principio da seguire è drammaticamente semplice: i virus sono strutture non vitali che non sopravvivono al di fuori dei loro ospiti, senza contatti non ci sono contagi e senza contagi la popolazione virale perde le sue battaglie o, altrimenti, le vince. Dipende da noi, e non da loro, come andrà a finire questa guerra.

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