Con più di 17.660 casi totali e 1.266 deceduti e contagiati, quello della Protezione civile sul coronavirus sembra ormai un bollettino di guerra. Saremo davvero costretti a scegliere chi salvare e chi lasciar morire? Gli ospedali sono arrivati al collasso? E perché il tasso di letalità in Italia è così alto? Formiche.net ne ha parlato con Massimo Galli, direttore e responsabile Malattie infettive dell’ospedale Luigi Sacco.
È vero che dovremo scegliere chi salvare e chi no?
Mi auguro di no. Ci si sta industriando anche per fare l’impossibile, ma è chiaro che gli ospedali, soprattutto in Lombardia, sono sotto una terribile pressione e sono sempre vicini al punto di rottura. Teniamo conto del fatto che gli ospedali devono essere considerati non la prima linea, ma la retrovia di questa guerra, perché è di una guerra che si tratta.
In che senso?
La vera prima linea, come in guerra, è dove il virus attacca e cioè il territorio, in mezzo alla gente. Se non lo si ferma lì, gli ospedali non ce la potranno fare. Come in guerra, quando arrivano maree di feriti dal fronte. Ma se fermiamo il coronavirus sul campo, allora potremmo riuscire a non dover mai scegliere chi curare e chi no.
Dove sta il limite oltre il quale non si regge?
Non è semplice definire una linea limite. Da diverso tempo, ormai, ci sono ospedali come quelli di Cremona, Bergamo, Brescia o Lodi sotto assedio. Anche qui al Sacco la situazione è complessa, ma essere da anni il centro di riferimento per le malattie infettive ad alto rischio biologico ci ha resi più pronti a rispondere all’emergenza, modificando l’assetto dell’ospedale secondo piani predefiniti. Però è impossibile arrivare del tutto preparati a una situazione come questa. Nessun sistema sanitario avanzato in nessuna parte del mondo avrebbe potuto tranquillamente far fronte a questa cosa.
Ed eccoci ai provvedimenti del governo per il coronavirus…
I provvedimenti restrittivi di distanziamento sociale sono necessari. Anzi, se non venissero rispettati e il numero di contagiati dovesse aumentare ancora, e torno al punto di prima, arriveremo al punto di totale crisi degli ospedali.
La situazione diventerà così critica anche al Sud Italia? Quando lo sapremo?
Ci vorranno 7-10 giorni per capirlo. Sappiamo tutti che l’organizzazione sanitaria del sud è molto più fragile, per cui mi auguro che non accada. I colleghi hanno il vantaggio di essere allertati e di disporre di tutti gli elementi per riconoscere precocemente Covid-19. L’obiettivo rimane sempre limitare al massimo la diffusione del virus.
In Italia ormai abbiamo superato i mille decessi e secondo i dati questi raddoppiano ogni due giorni e mezzo. Rischiamo un’ecatombe…
Guardi, purtroppo i nostri deceduti sono molti. Ma c’è un discorso importante da fare rispetto alla letalità del Coronavirus. Il computo viene effettuato solo sulle persone riconosciute ufficialmente come infettate dal virus, ma sappiamo che i contagiati asintomatici o con pochi sintomi sono molti. Il denominatore conta molto, in questi casi. E in questo, in particolare, il denominatore non è in linea con la situazione reale.
Ci spieghi meglio…
Se lei guarda la percentuale di letalità in Corea del Sud, vede subito che si attesta allo 0,8% contro il nostro 6,7%. Questo succede perché in Corea hanno attuato una politica di ricerca a tappeto degli infetti, con tamponi fatti anche agli asintomatici che hanno avuto contatti con gli infetti e a chi presenta sintomi lievi. La stessa Wuhan, addirittura, ha un tasso di mortalità più basso del nostro, pari al 4,4-4,5%. Mi pare chiaro che con queste differenze nelle percentuali c’è per forza qualcosa che non va nei nostri numeri.
Quindi alla fine abbiamo fatto troppi pochi tamponi?
Diciamo che abbiamo attuato una politica dal mio punto di vista non particolarmente illuminata, anche al fine di non sovraccaricare i laboratori di analisi dei centri diagnostici. Faccio un esempio: se lei ha 100 malati ma di questi sono sintomatici solo 50 mentre gli altri 50 hanno sintomi lievi e lei decide di fare il tampone solo ai 50 sintomatici, i malati risulteranno 50, la metà di quelli reali. Se ne muoiono 2, il tasso di letalità risulterà del 4%, ma se avesse considerato il campione completo il tasso di letalità risulterebbe dimezzato.
Quindi è il campione ad essere sbagliato?
Non è sbagliato, se si ha l’obiettivo di fare diagnosi sui soli casi sintomatici, ma è inutile fingere che non ci siano molte più persone infette di quante se ne siano contate.
Il professor Ricciardi ha detto che la lotta al coronavirus durerà almeno fino a giugno. Vuol dire che fino ad allora vivremo in condizione di distanziamento sociale o che a giugno il virus sarà sconfitto?
Nessuno può dire come andranno esattamente le cose e lo stesso Ricciardi, nel dire questo, credo non volesse intendere né che fino a giugno saremo nelle medesime condizioni di adesso, né che avremo risolto tutto. Ad oggi ciò che è importante per sconfiggere il nuovo coronavirus è che le misure di distanziamento vengano rispettate e che siano articolate il giusto affinché i contagiati non entrino in contatto con nessuno e non vengano ricoverati in giro per l’Italia negli ospedali in regime ordinario, infettando così altre persone.
Si è parlato tanto di vaccino, un po’ meno di cura. Da qualche giorno sappiamo che il Tocilizumab sta dando buoni risultati e da ieri che l’Italia parteciperà alla fase 3 della sperimentazione del Remdesivir. Quanto ci vorrà, insomma, per trovare la cura?
Neanche la cura è dietro l’angolo. Stiamo andando per tentativi, al momento. Anche noi stiamo usando il Tocilizumab qui al Sacco. Abbiamo oltre quindici pazienti in trattamento e il numero cresce. Va però ricordato che non si tratta di un farmaco con un’azione diretta contro il virus, ma in teoria in grado di limitare i danni di un’infiammazione eccessiva da esso causata. Il che comunque al momento è già tantissimo. Sarà importante anche disporre dei risultati degli studi sul Remdesivir, che arriveranno in tempi ragionevolmente brevi.