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Coronavirus batte la propaganda. Ecco cosa succede in Cina (oltre la censura)

Addio coronavirus, anzi no. A sentire le dichiarazioni del governo cinese sembrava che il grosso dell’emergenza sanitaria fosse superato. Le notizie che giungono nelle ultime ore dall’ex Celeste Impero sono però discordanti. Da giorni il Partito comunista cinese (Pcc) esulta per la vittoria della “guerra del popolo” contro il virus. La visita del presidente Xi Jinping a Wuhan, epicentro della pandemia, con tanto di mascherina, ha offerto l’occasione per il lancio di una campagna sui media di Stato che descrive il Covid-19 come una creatura in fin di vita, in casa, e in continua espansione, oltre confine.

Il drastico calo di infezioni è in effetti certificato dai numeri dell’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità), che ha di recente confermato quanto dichiarato dalla Commissione nazionale per la Sanità cinese, ovvero che “il picco dell’epidemia è passato in Cina”. Venerdì, il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha definito l’Europa “epicentro” della pandemia e questo lunedì la commissione cinese ha dichiarato che domenica ci sono state solo 14 morti e 16 nuovi casi: stando a queste cifre, il numero totale dei casi nel mondo ha superato il numero di casi in Cina.

Le cifre ufficiali, però, devono fare i conti con una serie di contraddizioni. A partire da Wuhan, la città sottoposta a un severo lockdown che, garantiscono le autorità di Pechino, ora sarebbe pronta a ripartire. Non tutti però sono d’accordo. Zheng Yun, vicedirettore della Commissione municipale della Sanità a Wuhan, crede che la marea non sia ancora passata. “Sebbene il numero dei casi giornalieri a Wuhan rimanga a cifra singola, ci sono ancora casi nella comunità – ha dichiarato questo lunedì. Secondo il funzionario, nel centro dell’Hubei lo status della diffusione del virus sarebbe ancora “grave”, riporta la Cnn. Di qui l’invito categorico per tutti i residenti a “restare a casa”.

È in corso in questi giorni, ha detto Yun, un’indagine “epidemiologica” perché gli ultimi pazienti ricoverati negli ospedali di Wuhan sembrano aver contratto il Covid-19 nelle “vicinanze” della città. Se confermato, il dato avrebbe una rilevanza non secondaria, perché dimostrerebbe che la quarantena lacrime e sangue della città non avrebbe allontanato del tutto l’epidemia, non ancora perlomeno.

Wuhan non è l’unica città dell’Hubei che ancora non può rivedere la luce. Secondo il sito As-Source News altri due centri della provincia, Xiaogan e Tianmen, che erano stati aperti questo sabato per la prima volta, sono stati di nuovo chiusi. A dispetto della narrazione di un ritorno alla normalità ben presente nei media statali e nelle dichiarazioni dei vertici del partito, che descrive i nuovi casi come “casi di ritorno”, cioè dovuti al ritorno di cittadini cinesi dall’estero, il “modello Wuhan” sembrerebbe dunque non aver ridotto a zero il rischio dei contagi.

Un modello che, al di là dell’efficacia, è stato duramente contestato all’estero per i metodi adottati per la quarantena. Secondo Human Rights Watch (Hrw) molti cittadini con precedenti malattie, anche terminali, costretti da un giorno all’altro a rimanere rinchiusi in casa, non hanno avuto la possibilità di acquistare le cure vitali. Sarebbero centinaia, è la denuncia dell’ong, i casi di cittadini di Wuhan che dopo due mesi di quarantena forzata soffrono di problemi mentali. Le stesse organizzazioni hanno accusato le autorità centrali di aver soppresso la libertà di stampa. Diversi, ad oggi, i nomi di giornalisti che hanno denunciato una mala gestio dell’epidemia e di cui non vi è più traccia. È il caso dell’ex corrispondente della Cctv (China central television) Li Zehua, ma anche di Fang Bin, Chen Qiushi o del noto imprenditore Ren Zhiqiang.

Al rispetto dei diritti umani si aggiunge un’altra questione più che controversa: la trasparenza. Quanto sono affidabili le cifre fornite dal governo cinese? Non molto, secondo diverse voci della stampa internazionale e delle organizzazioni umanitarie. Da quando è scoppiata la pandemia, spiega il New York Times, il governo ha più volte cambiato metodo di conteggio dei casi, e la mancanza di tamponi emersa nelle prime settimane di emergenza a Wuhan potrebbe aver seriamente alterato il conteggio finale, con centinaia (se non migliaia) di casi ancora sconosciuti.

Di questa distorsione sarebbe complice la censura delle autorità cinesi, denuncia Citizen Lab, organizzazione di ricerca dell’Università di Toronto che nelle ultime settimane si è prodigata in una continua azione di de-bunking dei dati ufficiali cinesi. Secondo un recente report del gruppo di studiosi, particolarmente severa sarebbe stata la censura del governo sui social network, e in particolare su We Chat. Solo nel mese di febbraio, la piattaforma avrebbe inserito in una black-list 516 combinazioni di parole chiave correlate al virus. Tra le tante messe al bando, come “scoppio della Sars a Wuhan” o “polmonite sconosciuta a Wuhan”, c’è anche il nome di Li Wenliang, il medico che per primo ha denunciato, inascoltato, l’epidemia alle autorità e che è morto un mese fa di coronavirus.

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