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E se il virus si chiamasse globalizzazione? La cronistoria di Giannuli

La vicenda del coronavirus, ancora in corso, si sta rivelando ricca di insegnamenti su cui conviene riflettere. Una delle manifestazioni più palesi è il carattere fortemente irrazionale delle reazioni tanto dell’opinione pubblica quanto ed ancor più di decisori ed esperti.

Il ritardo delle autorità cinesi nel dare notizia dell’epidemia (anche maggiore di quel che sembrava dato che i primi casi risalirebbero ai primi di dicembre se non a novembre) tradisce un imbarazzo dovuto al non sapere cosa fare, ma, almeno, i cinesi dopo sono stati capaci di reazioni molto decise (anche troppo, per certi versi): non credo che nessun Paese occidentale sarebbe stato capace di mettere su un ospedale per mille posti in dieci giorni ed isolare così bruscamente una città di 11 milioni di abitanti.

Quasi tutti i governi e l’Oms hanno oscillato fra l’allarmismo più sfrenato (l’Oms ha parlato della maggiore emergenza mondiale, superiore al terrorismo, di epidemia epocale e globale) ai toni più rilassati (dopo le invettive iniziali, l’Oms si è complimentata con il governo cinese per aver evitato molti contagi ed ha sottolineato la scarsa letalità del virus). L’esempio più straordinario è quello dell’Italia:

– il governo è stato il primo (ed unico in Europa) a chiudere tutti i voli con la Cina (il che, peraltro, non ha impedito che l’Italia fosse la più colpita dal contagio in Europa);

– il ministro della Salute Speranza (quando ancora i casi in Italia erano solo tre e nessuno di tipo secondario) ha parlato di una emergenza semestrale e di un trattamento dell’epidemia come ai tempi del colera del 1973;

– il presidente del Consiglio Conte ha attribuito la responsabilità del contagio all’ospedale di Codogno che non avrebbe rispettato i protocolli, magari dimenticando che non spetta a lui stabilirlo, ma al ministro della Sanità dopo una adeguata ispezione amministrativa. Dopo, ha dichiarato che il contagio più preoccupante non è quello biologico ma quello economico e che quello che fa paura è la recessione (che, in effetti, ha innescato la stessa classe politica – di governo e di opposizione – con gli eccessi allarmistici dei giorni precedenti);

– il sindaco di Milano è passato nel giro di tre giorni dal “stiamo valutando la chiusura dei negozi”, al “riapriamo Milano al più presto”;

– il presidente della regione Fontana dal “se la situazione si aggrava applicheremo a Milano le norme di chiusura adottate a Wuhan” al “È poco più di una influenza” e, magari, fra tre giorni ci dirà “Coronavisur? È tutta salute!”;

– a proposito del numero dei contagiati, è scoppiata una rissa fra Istituti superiore di Sanità e Protezione civile (che con scarsa serietà, passa i suoi dati alla stampa prima di inviarli all’Iss, per cui le valutazioni vanno da 257 a 640;

– l’“emergenza del tutto chiuso” è durata tre giorni, per cui o era inutile prima o è affrettato adesso riaprire tutto, comunque i cittadini sono disorientati;

– il governo scopre ora l’emergenza economica, come se non fosse stato possibile prevederla una settimana fa;

– quanto agli esperti ci limitiamo a segnalare la parziale marcia indietro di Burioni dopo la polemica con la primaria del Sacco (inelegantemente definita “la signora del Sacco”) che con maggiore buon senso ha cercato dal primo momento di fermare la psicosi dilagante.

I mass media, da parte loro, hanno inondato l’opinione pubblica con ore di trasmissioni ed ettari di paginate che, ovviamente, hanno esaltato la psicosi collettiva che si è manifestata nell’accaparramento di alimentari e medicine, con l’isolamento della comunità cinese, con gli episodi (fortunatamente scarsi) di aggressioni fisiche ed insulti ai cinesi.

In Italia stiamo raggiungendo il primato, ma anche gli altri non è che stiano messi bene: si pensi ai turisti lombardi e veneti rimandati indietro dal Madagascar, mentre sono stati fatti sbarcare gli altri italiani che, pure, avevano convissuto con i “presunti infetti” per dieci ore di volo.

Mi pare che ce ne sia abbastanza per parlare di una psicosi globale senza precedenti.

Le epidemie scatenano sempre folate di irrazionalità, va bene, ma qui stiamo andando oltre il solito, anche perché, di solito i governanti e gli esperti non si fanno coinvolgere – per lo meno in queste forme – nella crisi di nervi.

Come mai? Il punto è che la nostra è una società ansiogena, che spinge a comportamenti simili. Dagli anni novanta in poi, nelle società occidentali si è fatta avanti una crescente richiesta di sicurezza su tutto: nei confronti del terrorismo, della crisi finanziaria, della delinquenza di strada, della immigrazione di massa, delle epidemie, e di ogni altro possibile pericolo, anche solo eventuale. In parte questo è un prodotto dell’invecchiamento della popolazione e si comprende che le persone anziane si sentano più esposte delle altre ai pericoli (è ovvio che un plurisettantenne si senta più indifeso nei confronti di una aggressione delinquenziale, di una malattia contagiosa, di un crack bancari che ne bruci i risparmi).

In parte è il prodotto della promessa inesigibile di una protezione da ogni rischio fatta dalla svolta globalista. Non a caso Ulrich Beck ha definito “società del rischio”, parlando della nostra nel mondo della globalizzazione che, da un lato, ha moltiplicato insieme possibilità e pericoli, ma dall’altro ha speso a piene mani rassicurazioni sempre meno realizzabili. Questo ha messo in moto un circolo vizioso, per cui dalla società veniva una crescente domanda di sicurezza a tamburo battente, cui la classe politica alla ricerca di consensi rispondeva con la promessa di sicurezza che, a sua volta, stimolava una nuova domanda di sicurezza che induceva i governanti a moltiplicare le promesse in questo senso e così via. E nella quasi totalità dei casi, questa promessa non cercava di rimuovere le cause reali delle minacce, ma proponeva la soluzione più semplice ed immediata (aumentare le pene, fermare l’immigrazione con il blocco navale, isolare i contagi con quarantene e coprifuoco eccetera) di fatto inefficaci dal punto di vista reale, ma più spendibile mediaticamente.

Questo ha generato l’ossessione securitaria che è già la base della psicosi, e che, paradossalmente, ha reso la società più fragile e meno resiliente. Il coronavirus, per quel che sembra allo stato dei fatti, è una epidemia poco aggressiva (con un parametro di contagio compreso fra l’1,5 ed il 5,5; tanto che anche in Cina risulta contagiato ben meno dell’1 per mille della popolazione) e pochissimo letale (siamo intorno al 3% dei decessi sui contagiati e prevalentemente soccombono persone anziane, immunodepresse o con gravi patologie pregresse). Allora poniamoci una domanda: quale sarebbe stata la reazione della nostra società se ci fossimo confrontati con una vera pandemia, come “la spagnola” che, nel 1919 fece 22 milioni di morti nel mondo ed (in Italia) infettò circa un terzo della popolazione?

Nel nostro caso, sono bastati pochi giorni di blocco, in Italia, per causare una crisi di rigetto (anche perché, nelle “zone rosse” poi non ci si è curati di far arrivare cibo e medicine). E se davvero dovessimo procedere a blocchi come quelli attuati dai cinesi che, da oltre un mese, hanno isolato una regione con quasi 60 milioni di abitanti?

Quanto è fragile la nostra società? Chiediamoci: e se il virus si chiamasse globalizzazione?

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