Nei giorni scorsi una delegazione del governo parallelo libico con sede a Tobruk era a Damasco, dove ha avuto incontri con i funzionari del regime di Bashar el Assad. Si scrive “governo parallelo libico” per indicare quella forma di amministrazione che governa la Cirenaica e che fa da contorno politico alle azioni del signore della guerra Khalifa Haftar, che dal 4 aprile dello scorso anno ha lanciato una campagna militare con cui provare a rovesciare il Governo di accordo nazionale, Gna – che è l’unico esecutivo internazionalmente riconosciuto in Libia e che si muove su impronta onusiana.
Sempre nei giorni scorsi, le trattative diplomatiche impostate tra i due fronti dopo la Conferenza di Berlino si sono interrotte – saranno aggiornate tra un mese. E il delegato speciale inviato dalle Nazioni Unite, Ghassan Salamé, si è dimesso perché, dice lui, “non regge lo stress” – rumors dicono che forse sarà sostituito dalla sua vice, l’americana Stephanie Williams. Nel frattempo la tregua che doveva tenere in piedi il quadro negoziale viene infranta con costanza, sopratutto dagli aggressori, che stanno sfruttando un generale contesto favorevole per spingere fino in fondo la missione: conquistare Tripoli e la Libia con le armi.
Secondo alcune informazioni che arrivano a Formiche.net dal lato della Tripolitania, la riunione tra haftariani e assadisti si sarebbe portata dietro (o sarebbe stata anticipata, i tempi non sono chiari) l’arrivo in Libia di miliziani siriani lealisti che starebbero aiutando Haftar – sarebbero tra i duecento e i trecento. È possibile che sia propaganda, o meglio contro-propaganda: sul fronte tripolino ci sono realmente dei miliziani libici, inviati dalla Turchia, che è il principale sponsor esterno del Gna sul piano militare. Si tratta di elementi collegati ad alcune formazioni islamiste (anche radicali) controllate da Ankara e spostate dal nord siriano a combattere contro Haftar. Il quale ha sfruttato la palla al balzo per insistere che la sua missione è sconfiggere il terrorismo, rappresentato da quelli che stanno contro di lui: una narrazione del tutto simile a quella di Assad, e non troppo diversa da quella che ha spinto alcuni Stati del Golfo (come Emirati, Arabia Saudita ed Egitto) a mettere al bando la Fratellanza musulmana.
Sebbene sia improbabile che in questo momento ci siano miliziani assadisti in Siria, visto che il regime di Damasco è a secco di manodopera mentre sta fronteggiando un’intesa battaglia per riconquistare Idlib, la questione è un ottimo vettore per aprire un ponte tra le due crisi. “La gestione della crisi libica rischia di replicare un management già visto in Siria”, spiega Eugenio Dacrema, Co-Head del Mena Center dell’Ispi: “Prendiamo la conferenza di Berlino, sembra replicare quella di Astana (il sistema negoziale sulla Siria impostato dalla Russia, con Turchia e Iran. Ndr). Anche in quel caso erano stati chiamati al tavolo direttamente e solamente gli attori esterni coinvolti nel dossier. Certo, questi si muovono anche in funzione dei loro protégé, ma il rischio è che sia solo una copertura tattica di una volontà di risolvere militarmente la situazione”.
“Ad Astana vediamo muoversi una logica superiore ai conflitti interni: l’importanza centrale data agli attori esterni. Un approccio che non solo legittima le ingerenze straniere nelle guerre comuni, ma eleva anche gli interessi degli intrusi rispetto a quelli degli attori locali, di cui diventano “rappresentanti” al tavolo delle trattative”, spiega Dacrema. Un modus operandi del tutto diverso da quello intrapreso negli ultimi anni dalle Nazioni Unite, che si basava sul cercare di coinvolgere le parti direttamente interessate per cercare di chiudere un qualche compromesso che potesse accontentare tutti gli attori nazionali. Forma di gestione che però, nota Dacrema, ha incontrato ostacoli.
Nel caso libico, per esempio, è stata questa la via utilizzata dall’Italia fino agli ultimi due anni: gli italiani hanno cercato di costruire relazioni profonde con tutto il tessuto politico-sociale, economico e tribale, al fine di arrivare a un compromesso largo e inclusivo. Però questo piano è stato scombinato dagli interessi di chi ha sempre spinto per una soluzione non negoziale, ma armata. La sostituzione con un approccio dall’esterno “sembra più realistica”, spiega Dacrema, ma in realtà si porta con sé una problematica enorme – che è anche la ragione per cui l’Onu negli anni recenti ha sempre preferito l’approccio che coinvolge gli attori interni.
A lungo termine le parti domestiche tendono a “un compromesso che garantisca la loro sicurezza e sopravvivenza reciproca all’interno dei confini del territorio che condividono. Al contrario, gli attori esterni non hanno bisogno di arretrare se c’è ancora la possibilità di raggiungere i propri interessi. Non vedono alcun rischio immediato per se stessi nel perpetuare la guerra per procura, il che rende le loro posizioni molto meno propense a scendere a compromessi”.
In Libia attorno a cosa ruotano queste posizioni dall’esterno? “Il divide vero e profondo riguarda l’allenamento Turchia-Qatar contro l’altro tra le altre nazioni sunnite del Golfo, su tutti Emirati e Arabia Saudita, ed Egitto. Questi ultimi sono paesi che vogliono il mantenimento dello status-quo, l’altro, sulla base di diverse interpretazioni dell’Islam, è contro. Sotto quest’ottica, Assad rappresenta lo status quo tanto quanto Haftar, e da qui nasce un allineamento. Sia chiaro, le nazioni del Golfo non stanno con Assad, ma anche in queste recenti tensioni scoppiate con la crisi di Idlib tra Turchia e Russia, hanno fatto capire di essere più contro la Turchia”.
Tutto questo si traduce in quello che Dacrema definisce “un problema per noi”, perché – spiega – “le guerre non hanno mai conclusioni rapide”. Un fil-rouge che sembra unire lega la Libia e la Siria, così come Haftar ad Assad, è la presenza della Russia: il 24 febbraio Formiche.net ha tracciato attraverso i siti open-source un volo di un Tu-154 delle forze aree russe che è atterrato a Bengasi dopo una sosta a Latakia, la città di Assad, cuore assadista in Siria, e sede della base aere da cui Mosca coordina la campagna siriana. Voli simili erano già stati avvistati a gennaio. Cosa vuole la Russia in Libia? “Da quel che sappiamo, Vladimir Putin sarebbe rimasto assolutamente sconvolto dalla sorte toccata al rais Gheddafi. Il progetto completo sulla Libia di Putin, che vede nel mantenimento dello status quo e dell’uomo forte al comando i suoi obiettivi, diventa allora quello di piazzare Saif al Islam Gheddafi alla guida del Paese: passare Tripoli al figlio del rais sarebbe una restaurazione completa. Ma intanto appoggia Haftar: per quale futuro non è chiaro, viste le condizioni di salute dell’uomo forte della Cirenaica”.