Se a ventotto anni un giovane intellettuale francese avverte il bisogno di scrivere la sua autobiografia e, con il piglio di un maturo scrittore che ha attraversato la guerra in compagnia della letteratura, si ingegna a raccontarsi nella sua intimità, per quale motivo appena più vecchio, trentaquattrenne, non dovrebbe rappresentarsi come “il giovane europeo” in grado di sfidare il vecchio decrepito ed inutile mondo nel quale si aggira con l’arma della scrittura faticosa che gli apre le porte della consolazione?
Drieu La Rochelle, con Stato civile offre il suo biglietto da visita raccontando la giovinezza di un capo inquieto; con Il giovane europeo (Aspis, pp.131,€ 20,00) s’industria a proporre una meditazione sulla storia, negli anni Venti, ricavandone una immagine decadente che proietta come rappresentazione del suo tempo e di quello che verrà.
Questo secondo saggio biografico è l’ideale continuazione del primo cui seguirà l’analisi politica contenuta nelle pagine di Misura della Francia: un trittico che è come una pala rinascimentale al centro della quale c’è lui, il giovane scrittore, quale sarebbe diventato: la novecentesca raffigurazione di un uomo che ha attraversato la decadenza, avendola preconizzata, inconsapevolmente accompagnandosi a due fratelli maggiori, Nietzsche e Spengler.
Da loro, più o meno consapevolmente, trae la visione della fragilità del vecchio mondo, mentre il nuovo fatica a manifestarsi ed il vuoto è riempito dagli stereotipi della modernità balorda la quale, da Mosca a New York, stende un velo di sporcizia morale che non può che disgustare un uomo come Drieu “antitesi del nichilista”, come scrive nel colto e raffinato saggio introduttivo Marco Settimini. Perché è un intellettuale che “ha il gusto della vita, della bellezza, della carne, delle forme”. Insomma, se proprio dovessi definirlo, direi che alla sua età, in quei frangenti, è un “giovane europeo” di ascendenza “dorica”, alieno dall’autocommiserazione e di null’altro preoccupato se non di mettere su carta i suoi pensieri, di essere uno scrittore come potrebbe essere un guerriero, ma non un bottegaio, un affarista, un fellah europeo che si accontenta dei bordelli borghesi, siano essi culturali , estetici o, peggio, etici. “È un aristocratico dello spirito – osserva Settimini – il quale, avendo avuto come destino quello di vivere nel Novecento, soffre in modo sconvolgente per ‘l’infiacchirsi della vita’ cui assiste in ogni ambito umano”. A cinquantadue anni avrebbe deciso di farla finita. La disperazione lo avrebbe portato a spararsi un colpo di pistola in testa – come il protagonista/alter ego di Fuoco fatuo – dopo essersi “preparato” con il gas ed il gardenal, leggendo due versetti della Bhagavadgita. Aristocratico fino alla fine. Nel tempo della plebaglia poco intelligente che non era colpa sua – come avrebbe scritto in Récit secret – se non aveva capito il rotolare scomposto del mondo con la furia di una sinfonia di Rachmaninoff.
Il “giovane europeo” si è rotolato consapevolmente con la storia nel corso della sua luminosa e carnale adolescenza prima e maturità poi. Individuando che alla morte si sarebbe potuto sottrarre soltanto concependo una grande opera, la sua opera letteraria che a tratti gli incuteva terrore quando la pagina bianca restava tale. Perché la scrittura, come per Nietzsche, e non diversamente da Spengler, era uno strumento di libertà; anzi la sola prova che la libertà esiste, a parte la morte volontaria.
Drieu non abdica, per quanto testimone e partecipe della fine di un mondo, a vivere da “homme couvert des femmes”, metafora brillante per dire che a nulla avrebbe rinunciato, men che meno all’amore, vissuto nelle fibre più intime, o carnale eppure totalmente, spiritualmente appagante. Come il sentimento che lo legò, con alterne fortune, a Victoria Ocampo, inarrivabile scrittrice argentina, teneramente e disperatamente amata; o ad una qualsiasi dama dell’alta società parigina, paradigma di sensualità patinata priva di ardore e di poesia. L’amore impastato di letteratura, cioè scavato nelle profondità dell’anima o semplicemente di carne, occasionalismo puro, vitalismo per vincere la noia.
Tutte le donne, le sue donne o quelle che credevano di essere sue, non lo abbandonarono nel giorno in cui lo accompagnarono nell’ultimo viaggio. Qualcuno disse che non s’erano mai viste tante donne al funerale di un uomo, mogli ed amanti comprese, in compagnia di avventurose sciamane del sesso che aveva deificato nei suoi romanzi, primo tra tutti Gilles. Ma l’amore ed il sesso non compensarono mai la nostalgia per un mondo inesistente, il XIII secolo per esempio, del giovane ed il meno giovane europeo. Era soltanto la scrittura che poteva sopperire alla mancanza di un ordine quale avrebbe rappresentato in Misura della Francia.
“Non avevo idea che si potesse scrivere su altro che su me stesso. Non vedevo più lontano della punta del mio naso che m’incantava. Rimanevo inerte come se tutte le mie facoltà fossero state assorbite dallo spettacolo del mondo; non guardavo tuttavia né le cose né le persone. Era ciò che in me vi era di più palpitante, di più prezioso, di più effimero che volevo sorprendere ma a causa di quella stessa attenzione in me non si muoveva più niente”, ammetteva Drieu con sfacciato candore. Sembrerebbe la confessione di una maschera, alla Mishima, per quanto possa suonare sgradevole o azzardato il paragone. E invece era la descrizione di un’inquietudine che lo logorava : “Quindi più m’ interrogavo più la vita mi sfuggiva: la mia penna grattava un suolo arido e sterile. Mi chiudevo in un circolo tanto da essere mortale. Per scrivere cercavo la mia vita, ma per via del fatto di cercarla, non la vivevo più. E attorno a me, che me ne stavo immobile, sotto il mio sguardo distratto il mondo intero poco a poco s’immobilizzava”.
Chi è, dunque, il “giovane europeo”? Comunque lo si legga e lo si interpreti, è la maschera di Drieu, a trentaquattro anni, che davanti ad un foglio bianco si pone il problema della resistenza all’epoca nella quale la vita gli appare come un sogno collettivo. “L’individualità esasperata, estenuata, finisce col morire, e da essa nascerà un comunismo liquido, inevitabile”.
Non sarà forse il “pensiero unico” dell’eguale nel tempo, il segno della decadenza estrema che nel 1927 il giovanotto contempla con il disincanto di chi è assetato di universi formali da ricomporre tra le macerie che la guerra aveva lasciato in ogni angolo dell’Europa disfatta? È probabile. Lo chiamiamo “comunismo liquido” inconsapevolmente per “nobilitarlo”, ma è soltanto il gusto per il laido ciò che connota “il marciume dell’élite di oggi”.
Il giovane europeo, al di là dell’esasperazione estetizzante nel contemplarsi quasi come una sorta di rimedio alla volgarità che lo attornia, è uno dei libri più moderni di Drieu La Rochelle. In pochi tratti di penna con i quali scrive di un uomo che assai gli assomiglia, lo scrittore francese rivela la sua natura che era quella di un audace sfidante, di un temerario avventuriero, di un consapevole visionario: “L’anima di un eroe si era annidata per un po’ nel mio corpo. La mia intelligenza fioriva. Imparavo e ricordavo tutto. Ed ero buono, padrone della mia lingua, delle mie mani, dei miei occhi”, aveva scritto in Stato civile. Non aveva cambiato idea sei anni dopo. Sognando, ma anche intervenendo con la sua arma più formidabile nei destini francesi ed europei: la penna – un’arma impropria – che intingeva quotidianamente nell’inchiostro rosso e nero di quel socialismo dell’avvenire che fu l’ultimo orizzonte che abbozzò a beneficio dei nietzscheani delusi e dei sorelliani sognatori, i primi volti a raccattare frammenti di volontà di potenza; i secondi intenti a rimettere insieme le sconnesse tessere di un mosaico fatto di classe e di nazione.