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L’Italia ha bisogno dell’acciaio di Taranto, ma la strada è lunga. Il commento del prof. Pirro

L’accordo sottoscritto ieri fra i consulenti legali di Arcelor Mittal e quelli dei Commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria serve a disinnescare il contenzioso giuridico aperto presso il Tribunale di Milano dai primi di novembre dello scorso anno, quando il gruppo francoindiano con varie motivazioni polemiche aveva presentato istanza di recesso dal contratto di locazione dei rami d’azienda della holding siderurgica finalizzata all’acquisto, sottoscritto il 6 settembre del 2018, e l’Amministrazione straordinaria, a sua volta, aveva risposto con un intervento cautelare, volto a respingere il proposito duramente manifestato dall’affittuario.

Si sono poste così le premesse per la vera trattativa che, in realtà, si svolgerà da oggi e sino a novembre sul futuro assetto dell’Ilva, un periodo abbastanza lungo e presumibilmente di trattative serrate fra le parti che potrebbe però concludersi – se non si realizzassero alcune condizioni previste nell’accordo – anche con un recesso di Arcelor, questa volta già concordato, con il versamento di una penale di 500 milioni da comunicarsi entro il 31 dicembre.

Sino a novembre dunque si tratterà per un ingresso in AmInvestco, previo aumento di capitale, di partner pubblici e privati italiani – fra cui banche creditrici come Intesa San Paolo, Bpm, Cdp – e il Mef, mentre il nuovo piano industriale 2020-2025 prevede per quell’anno il raggiungimento del tetto di 8 milioni di tonnellate di produzione con 10.700 addetti a regime, mentre per i 1.700 operai e tecnici in cigs nell’Amministrazione straordinaria – che in teoria sarebbero potuti rientrare in fabbrica dal 2023 secondo il precedente accordo – si lavorerà per impiegarli in nuove attività industriali da avviarsi su Taranto e nel suo hinterland, e se ne favorirà un esodo incentivato.

È prevista inoltre la realizzazione di un sito produttore di preridotto di ferro, facente capo ad una newco partecipata anche da privati, per alimentare un forno elettrico che dovrà essere installato da Arcelor, cui in prospettiva dovrebbe affiancarsene un secondo così da portare l’assetto di marcia a regime del Siderurgico sui due altiforni 4 e 5 – quest’ultimo, il più grande d’Europa, da riattivare essendo fermo da anni – e su due forni elettrici.

Questo in sintesi il contenuto dell’accordo che può definirsi un accordo “ponte”, nel cui ambito d’ora in avanti dovrà svilupparsi un confronto operativo fra le parti per provare ad attuarne i vari punti messi in ordine nel testo, anche se – bisogna dirlo con assoluta chiarezza – non è affatto scontato che a fine dicembre Arcelor rimanga azionista della società.

Ed è proprio questo il punto più criticato dai sindacati che non hanno partecipato ad alcuna trattativa – essendo questa riservata fra Amministrazione straordinaria e locatario degli impianti – ma che ora saranno chiamati a discutere sul piano industriale, su eventuali ulteriori esuberi, e su nuovi probabili ammortizzatori sociali.

Così come lamenta di non essere stato chiamato al tavolo della trattativa il Comune di Taranto, il cui Sindaco Melucci ha emesso un’ordinanza in cui impone ad Arcelor entro un breve lasso di tempo di rimuovere le cause di alcune recenti emissioni inquinanti della fabbrica, pena la chiusura coatta della sua area a caldo che al momento, non lo si dimentichi mai, è sempre sotto sequestro anche se con facoltà d’uso.

Anche le aziende dell’indotto – che lamentano ormai da alcuni mesi lentezza e ritardi nei pagamenti dello loro prestazioni da parte di Arcelor – non sembrano particolarmente soddisfatte dell’accordo raggiunto che, lo ripetiamo, può essere considerato solo come un ordinato e condiviso elenco di punti da trattare fra le parti al fine di evitare futuri interventi giudiziari.

Ma la strada da percorrere per addivenire ad un assetto stabile del Gruppo Ilva e del suo imponente sito ionico – classificato da anni come “impianto di interesse strategico nazionale” e che è, lo ripetiamo, non solo la più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa, ma anche la maggior fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 8.277 addetti diretti – è ancora molto lunga e dall’esito nient’affatto scontato.

Già si parla infatti con insistenza del possibile arrivo a Taranto di un grande produttore di acciaio del Nord che ha ormai una lunga esperienza in impianti siderurgici innovativi e che entrerebbe nella gestione del sito, ma solo in partnership con lo Stato, sostituendo così Arcelor che – secondo molti osservatori – non avrebbe preso impegni cogenti per i nuovi investimenti di sua competenza.

Un dato comunque deve essere ribadito con forza: l’Italia ha bisogno ora e per il futuro dell’acciaio di Taranto, se vuole restare una grande potenza manifatturiera di rango mondiale, che non si lascerà certo piegare da una epidemia di coronavirus. Ma ne sono tutti consapevoli di questo dato strutturale? O invece vi sono sempre coloro i quali ritengono che lo stabilimento ionico debba essere dismesso senza se e senza ma, finendo così col lasciare un autentico buco nero produttivo e occupazionale nell’economia della città, della Puglia, del Sud e dell’intero Paese?

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