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La guerra del greggio e il balletto dei prezzi (tra Mosca e Washington)

Non appena lo scisto americano uscirà dal mercato, i prezzi rimbalzeranno e potrebbero raggiungere i 60 al barile: lo ha detto Igor Sechin, numero uno di Rosneft. Legittimando, in sostanza, una guerra contro lo scisto Usa, uno scenario che molti avrebbero fino a poco tempo fa considerato assolutamente impossibile. In questo frangente i gruppi petroliferi russi risultano ben posizionati per gestire un crollo dei prezzi visto che godono di un regime fiscale flessibile e costi bassi.

Il tutto mentre gli Stati Uniti stanno cercando di convincere l’Arabia Saudita a invertire la rotta: “Il Regno deve cogliere l’occasione e rassicurare il mercato” ha dichiarato il segretario di Stato Mike Pompeo.

PIU’ PETROLIO. E DOPO?

La tesi di Sechin è che pompando più petrolio (va ricordato che la Russia può aumentare la produzione di circa 300.000 barili al giorno nel giro di poche settimane) la Russia potrà trovarsi nelle condizioni di complicare i piani dei suoi principai competitors, e al contempo favorirla nell’espansione della propria quota di mercato. Il punto è capire se questo schema avrà buon gioco nel breve termine, oppure no, anche perché non è ancora noto per quanto Russia e Arabia Saudita aumenteranno le forniture a breve termine dopo che il calo della domanda (giunto a un quarto del totale) è stato causato dal coronavirus.

Il grosso della produzione russa viene da giacimenti che risalgono all’era sovietica che, ad oggi, necessitano di ammodernamenti per conservare quel trend produttivo. E i prezzi bassi incideranno fisiologicamente sugli interventi di “manutenzione” straordinaria.

SCONTRO APERTO

Produrre di più per eliminare la concorrenza sembra essere la strategia anche dell’Arabia Saudita, che ha deciso un aumento della produzione di petrolio da 12 a 13 milioni di barili al giorno per i prossimi 24 mesi, in virtù delle nuove capacità tecnologiche di Saudi Aramco. C’è anche la possibilità di estendere la produzione nella zona neutrale di confine contesa con il Kuwait. Tra l’altro l’Arabia Saudita ha il costo di produzione di petrolio più basso del mondo, meno di 9 dollari al barile. Un colpo indirizzato a Mosca, che ha reagito per voce del vice primo ministro Andrei Belousov, che ha accusato gli arabi di voler interrompere l’accordo Opec. Più di un terzo del bilancio nazionale russo proviene da entrate petrolifere, rispetto ai due terzi dell’Arabia Saudita.

Ad oggi dovrebbero esserci circa 750 milioni di barili di greggio in giacenza a livello globale, con gli analisti dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) che prevedono che questo dato salirà fino a 1 miliardo di barili. Ma si tratta di mosse che innescano conseguenze chirurgiche, come le destabilizzazioni che si abbatteranno su paesi come Nigeria, Iran, Kazakistan, Venezuela e Algeria, che hanno il massimo gettito interno proprio dalle entrate petrolifere, con riverberi a catena sui loro mercati obbligazionari e sulle valute.

IL BIVIO PER GLI USA

Il calo dei prezzi del petrolio porterà a conseguenze negative per l’industria americana, anche in considerazione dei numeri noti oggi: Exxon Mobil ha ridotto le vendite del 20% dall’inizio della crisi e Chevron del 12%, con il governo degli Stati Uniti che ha accettato di acquistare petrolio per riserve strategiche da società statunitensi al fine di sostenerle in questi tempi di crisi. Un bivio per gli Usa, a metà strada tra il sovvenzionamento diretto delle compagnie petrolifere e l’indebolimento della Russia dal mercato grazie alla clava delle sanzioni, per vietare ad altri Paesi di acquistare petrolio russo.

Prima conseguenza di questi rumors si ritrova nella decisione del governo russo di acquisire le attività di Rosneft in Venezuela, probabilmente al fine di proteggere il più grande player di petrolio russo dalle sanzioni statunitensi.

twitter@FDepalo



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