“L’unica buona notizia è che si è chiusa una campagna elettorale da dimenticare”. Jacob Perry tira un sospiro al telefono. A lungo direttore dello Shin Bet, l’agenzia del Servizi segreti israeliani per l’Interno, esponente di lungo corso del partito centrista di Yesh Atid, si ritrova ancora una volta a constatare la vittoria elettorale di Bibi Netanyahu, con cui è stato al governo come ministro della Scienza e della Tecnologia. Un successo a metà, dice lui a Formiche.net, e un Paese diviso, che il prossimo governo dovrà cercare di ricucire.
Netanyahu l’ha definita “la più grande vittoria” di sempre.
Faccio una premessa. Questo è stato il terzo appuntamento elettorale in un anno, e senza dubbio la peggiore campagna finora. Non si era mai arrivati così in basso, fra accuse personali e scorrettezze. Il risultato è che la destra del Likud ha riscosso un indiscutibile successo, 59 seggi, e la sinistra ne ha presi 54. Per formare un governo Bibi ha bisogno di 61 seggi.
Ce la farà?
Ci proverà in tutti i modi. Gliene servono altri due, e credo proprio che non sarà impossibile trovare due defezioni nella Knesset.
Quanto ha pesato lo scandalo giudiziario sul voto?
Questo voto ha dimostrato che agli israeliani non importa così tanto delle questioni giudiziarie. Il Paese è diviso in due, come non accadeva da molto tempo. Ma non si può ignorare che la maggioranza ha votato a destra, nonostante il processo per corruzione che pende su Bibi.
Il processo però resta. È una spada di Damocle sul nuovo governo?
Ammesso che riesca a formare un nuovo governo, e credo che lo farà, il timore a sinistra è che voglia cercare di aggirare i guai giudiziari con la cosiddetta “Legge francese”, che impedirebbe l’incriminazione di un Primo ministro mentre è in carica. Lui, in campagna elettorale, ha detto che non si presterà a questa operazione. Vedremo se sarà di parola.
Perry, un suo bilancio: perché ha vinto Netanyahu?
Gli israeliani erano in cerca di un leader forte, muscolare, determinato. Bibi ha i suoi problemi con la Giustizia, ma anche un bilancio di governo tutto sommato positivo dalla sua: l’economia è in buona salute, e la sicurezza del Paese non è peggiorata. I suoi avversari avevano ottimi profili, persone oneste, con un passato nel mondo della sicurezza, ma non sono leader assertivi e, a differenza di Bibi, non hanno un network di relazioni internazionali.
Veniamo al programma. Insediamenti, striscia di Gaza, rapporti con i palestinesi. Si va verso una stretta?
Bibi l’ha promessa in campagna elettorale, ora è il momento dei fatti. Si parla da molto tempo di un cambio di politica sulla linea di Gaza, di rivendicare la sovranità di Israele sulla West Bank, non sono sicuro che possa andare fino in fondo.
Perché?
I toni si faranno più duri, su questo non ci sono dubbi. Ma alzare la voce non basta. Soprattutto per portare a termine progetti ambiziosi lanciati da Bibi, dalla nuova linea di deterrenza iraniana al confine con la Siria al Piano di Trump per la pace con la Palestina.
Il Piano di Trump resterà un piano?
Fatta eccezione per la destra, il resto del Paese pensa che non sia fattibile. È un piano favorevole nei confronti di Israele, forse troppo favorevole, e rischia di rimanere sulla carta.
Quali sono le tre priorità per il governo?
La prima è l’emergenza securitaria a Gaza, ma anche al confine settentrionale con la Siria e il Libano, dove la deterrenza dell’Iran richiede un rafforzamento delle difese. Segue l’economia: l’ultimo governo ha lasciato un enorme deficit, che il nuovo budget dovrà cercare di colmare, almeno in parte. Il terzo obiettivo è il più difficile, ma anche il più urgente: ricucire le divisioni nella politica e la società, fomentate dal circuito mediatico, mettere da parte i toni polemici di questa pessima campagna elettorale.