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Così il virus affossa l’aviazione. E Alitalia torna pubblica. L’analisi di Alegi

Con la Iata, l’organizzazione mondiale delle compagnie aeree, che prevede perdite fino a 110 miliardi di dollari, sospensioni di voli ovunque, il titolo Boeing che perde oltre il 20% a Wall Street e riceve promesse di sostegno da Trump, Airbus che chiude le linee di montaggio in Francia e Spagna per sanificarle, nessuno vuole comprare Alitalia. La vendita della compagnia, da sempre problematica per gli infiniti paletti politici, è ufficialmente fallita e la ex compagnia di bandiera tornerà pubblica.

È quanto ha deciso il consiglio dei ministri, infilando tra le misure straordinarie per il Covid-19 non solo la previsione di generiche “compensazioni per i danni subiti”, come stanno facendo molti Paesi del mondo, ma anche la costituzione di una società in tutto o in parte pubblica destinata ad assorbire le commissariate Alitalia – SAI e Alitalia Cityliner. Secondo il decreto, azionista della futura compagnia sarà il ministero dell’Economia e finanze “anche tramite società a prevalente partecipazione pubblica anche indiretta”: presumibilmente le Ferrovie, da sempre individuate come primo pilastro insieme al mitico partner industriale internazionale. Il commissariamento del 2017 cede insomma il passo alla nazionalizzazione del 2020.

Sarà a questa nuova società, ancora tutta da definire, che il commissario straordinario Giuseppe Leogrande cederà i complessi aziendali di Alitalia e Cityliner. Per fare cosa, resta tutto da definire. Se la difesa dell’occupazione è da sempre al centro della vicenda, molto meno chiaro è come Alitalia (o come si chiamerà) dovrà posizionarsi sul mercato (vettore globale o regionale, con annesse scelte su flotte e rotte), in quale alleanza (con tutte le conseguenze in termini di accesso alle destinazioni non servite direttamente) e con quali capacità di autoproduzione dei servizi. Senza sciogliere questi nodi – e senza azzeccare la risposta – la situazione resterà sempre difficile, costringendo lo Stato a intervenire ancora.

Secondo la Iata, nello scenario peggiore l’impatto del coronavirus sarebbe equivalente a quella della crisi finanziaria del 2008: un anno disastroso, che spazzerà via i buoni risultati che molte compagnie avevano ottenuto nel 2019. Come sempre, uno dei nodi è che il trasporto aereo è un’attività ad alta intensità di capitale e ad alti costi fissi, in cui i profitti negli anni buoni sono molto inferiori alle perdite in quelli negativi. Con la pressione sui prezzi innescata dalla deregulation, l’utile (anche solo operativo) richiede che gli aerei volino pieni, o quasi. La riduzione ai soli spostamenti essenziali ha invece ridotto il riempimento dei pochi voli ammessi a circa il 50%, un valore insostenibile per più di pochi giorni. Di qui a fermare gli aerei, il passo è stato tanto breve quanto inevitabile.

Se per i privati cittadini lo scenario è quello del lockdown – queste righe vengono scritte da casa, in smartworking – per l’industria del trasporto aereo la prospettiva è quella del meltdown. Il fermo dei voli renderà presto insostenibile la situazione di molte compagnie aeree, con la probabile scomparsa delle più deboli e la sopravvivenza di quelle con maggior sostegno pubblico, come per quelle cinesi o del Golfo. La diminuzione dei passeggeri impatterà, a sua volta, sugli aeroporti, i cui ricavi sono sempre più legati alle attività non-air, dai parcheggi ai negozi. Gli aeroporti, a loro volta, avranno difficoltà a sostenere economicamente le rotte delle low cost, accelerando la contrazione dei passeggeri. E tutto questo si tradurrà in minor domanda di aeroplani, con impatto sui costruttori Boeing e Airbus, ma anche sulle loro catene di fornitura globali, dai motori inglesi di Rolls-Royce alle aerostrutture italiane di Leonardo – tanto per fare due esempi.

In questo quadro a tinte fosche, ulteriormente complicato dalla diffusione solo graduale del Covid-19, che potrebbe esaurirsi solo a stagione estiva molto avanzata, la situazione di Alitalia è doppiamente difficile. La compagnia, che non presenta un bilancio da tre anni, ha recuperato efficienza operativa (cioè puntualità e regolarità) ma perde alcune centinaia di milioni. È sostenuta a spada tratta dal governo, a differenza di Air Italy (l’ex Meridiana), della quale non a caso non si fa parola nel decreto, ma questo non si è mai tradotto in una chiara indicazione di obiettivi industriali e delle risorse per sostenerli.

La nazionalizzazione sembra insomma più il modo per aggirare i vincoli europei – magari attraverso un “contratto di servizio” come quello delle Ferrovie, che garantisca uno zoccolo di entrate certe – ma non garantisce, in sé, il successo del nuovo vettore. Lo stesso inserimento del salvataggio Alitalia, già nell’aria da tempo, nel pacchetto coronavirus, senza un piano industriale, sembra mascherare il vero nodo da sciogliere. Lo si intuisce dal fatto che mentre l’articolo 79 è chiaro nello stanziare per Alitalia 500 milioni di euro (comma 7), la relazione illustrativa si limita a parafrasarne il testo, senza spiegare il senso strategico dell’intervento. I soldi servono a coprire le perdite previste per il Covid-19 (e in tal caso, l’aiuto non sembra molto maggiore di quello del rosso degli ultimi anni) o per l’approdo sotteso alla trasformazione in società pubblica?

È facile prevedere che quando i giornali si torneranno a scrivere nelle redazioni, i giornalisti continueranno a scrivere di salvataggi e rilanci di Alitalia.


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