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Perché rifare l’Iri oggi sarebbe folle. Scrive chi ha ben conosciuto l’Iri

Alcune forze politiche di governo, ma il mood pare diffuso anche in altri settori del nostro attuale, e molto povero Parlamento, pensano che occorra, ma è detto molto semplicemente, ad usum delphini, di rifare l’Iri. Ma questa è proprio la simplicitas, o almeno quella “semplicità” che fece dire al riformatore religioso Jan Hus, quando era sul rogo, O sancta simplicitas! quando vide una vecchierella che aggiungeva fascine al legno del rogo che lo stava bruciando vivo.

Vorrebbero nazionalizzare tutto, in certe aree dell’attuale governo, a partire da Alitalia, che vale peraltro il 14% del mercato dei viaggi arerei italiani. La bad company, di cui temo certi ministri sappiano solo la traduzione letterale del termine inglese, avrebbe comunque 3,2 miliardi di debiti, con un ulteriore prestito-ponte di 900 milioni, con ancora più ulteriori 500 milioni di perdite, sicure, per ogni anno d’esercizio.

Questa non è una bad company, questo è un delirio da Frankenstein finanziari. E finora, lo Stato ha già “salvato” Alitalia con ben 11 miliardi. Questo per dire non tanto la fantasia al potere, ma il puro masochismo sugli stendardi. Dall’Alitalia si passa facilmente, poi, in un delirium sempre meno tremens al sogno di una nuova Iri, che dovrebbe, nel gergo del tutto a-tecnico dei ministri, “salvare le imprese italiane in crisi”.

Intanto, l’Iri di Beneduce salvò, certamente, molte imprese, ma molto più le grandi che le piccole, soprattutto a causa del bagno che l’Europa ebbe dal rapido trasporto della crisi americana del 1929 sul suo territorio, si pensi qui proprio alla crisi di Weimar, che fu proprio innescata, oltre che dallo stupidissimo Trattato di Versailles del 1919, dalla caduta degli investimenti di Washington in Germania.

La nuova Iri, che era infatti molto originale come idea, che fu del vecchio regime, venne molto discussa anche in Costituente. Falck, poi salvato in parte e guarda caso dalla nuova Iri repubblicana, non ritenne, e ci mancherebbe altro, che ci fosse bisogno di una siderurgia di Stato, in Italia, mentre Oscar Sinigaglia, guarda caso, la riteneva necessarissima. Facciamo industria di trasformazione con le materie prime e le lavorazioni di base tutte comprate all’estero? Siamo matti? E da dove arriverebbero quindi i margini di guadagno necessari per far fare il salto alla società e all’economia italiana?

Sinigaglia, ebreo veneziano convertitosi alla Chiesa Cattolica e poi battezzato, nel 1942, dal suo vecchio compagno di liceo Pio XII, partecipò anche a quella straordinaria programmazione politico-industriale che fu il Convegno di Camaldoli. Dal quale bisognerà comunque ripartire. Questo, per dire sostanzialmente che non si raccolgono le classi dirigenti tra i fuori-corso di qualche facoltà di “comunicazione” o altro.

L’Iri repubblicana fu certamente una grande esperienza, alla quale non fui certo estraneo, di costruzioni di infrastrutture moderne per un Paese distrutto da una dittatura inutilmente guerriera e da una guerra male, e tragicamente, perduta. Non fu certamente una ancora di salvezza per le piccole e medie imprese in crisi. Tutt’altro: le creammo noi all’Iri, molte delle Pmi che ancora oggi, talvolta, magari sotto altri nomi, continuano a lavorare bene.

Immagino che la foga irizzatrice dei nuovissimi governanti nasca da un ulteriore e gravissimo errore, ovvero quello di pensare, come una certa vulgata pseudo-liberista ha scritto dagli anni ’70 in poi, tra razze padrone, scritte da un seguace integerrimo e ben pagato di una particolare frazione della suddetta razza, e i soliti “padroni del vapore”, di un ben più nobile liberale einaudiano, che comunque l’Iri abbia solo salvato industrie decotte o in stato pre-fallimentare.

Ci mancherebbe altro. Certo, ci fu, e lo dico da vecchio presidente della Sme, la finanziaria dell’agroalimentare dell’Iri, la questione del “panettone di Stato”, sui cui si esercitarono i soliti giornalisti, certuni perfino più improvvisati di alcuni politicanti. Ma la grande area Iri era quella delle tecnologie, dei nuovi settori in crescita, delle imprese ad altissimo, talvolta, contenuto tecnologico. Detto tra parentesi, fu proprio chi scrive a vendere la Sme a molto oltre il valore per la quale era stata indicizzata dai ministri di allora, ed ebbi, per questo indubbio successo, lettere di complimenti da Scalfaro, Ciampi, e da qualche altro. Ma passiamo oltre.

I panettoni di Stato si vendevano, infatti, e anche molto bene, davano poi buoni utili. E lo Stato aveva salvato due grandi imprese alimentari che la vecchia dirigenza privata aveva mandato in malora, senza colpa alcuna delle maestranze e del management dipendente dagli azionisti iniziali.
L’Iri era, allora, il 7° conglomerato di imprese al mondo, non dimentichiamolo. Ma la privatizzazione fu anche la questione primaria, fin troppo ripetuta, degli “obblighi politici” a cui il sistema dei partiti costrinse le Partecipazioni Pubbliche. Verissimo.

Ma tali obblighi erano esattamente equivalenti a quelli che erano in capo alle industrie private. Che pagavano anch’esse “oneri impropri”, spesso ancora maggiori, a un sistema politico costoso, inefficiente, inquinato da gruppi e personalità pericolose, certo, ma sostanzialmente funzionale alla rappresentanza elettorale esatta e corretta, nei maggiori rapporti di forza sociali. La Prima Repubblica rappresentava l’Italia, questa sceneggiata napoletana, senza offesa per gli amici di Napoli, non rappresenta mai nessuno. Si crede forse che gli elettori chiedano sempre, ai loro parlamentari, delle poesie, o degli alati discorsi?

Per la storia dell’Italia dei partiti, a parte il fatto che non si vede come possa funzionare una democrazia costituzionale moderna senza partiti, veri e di massa, non piccole orde di ignoranti come adesso, certo, bene, c’erano i partiti. E ora? Cosa c’è? Il nulla. Mancò, per l’Iri repubblicana. Lo hanno detto ormai molti storici dell’economia, un quadro delle direttive di base politico-economiche, che erano, di volta in volta, senza un programma, elaborate dalla presidenza del Consiglio, il che fu uno dei veri e maggiori vulnus dell’Iri repubblicana.

Mancò anche il controllo, e non mi riferisco qui al banale controllo contabile o di esercizio, ma al controllo strategico, alla verifica dei risultati strategici, anche quando fu costituito il ministero delle Partecipazioni Pubbliche, nell’anno ferale del 1956. Le holding finanziarie si occupavano di questioni di pura natura, appunto, finanziaria. Non vi era, ovviamente, alcun controllo parlamentare. Ecco, se vogliamo ripensare davvero il progetto Iri, dovremmo partire da qui, non dalle piccole chiacchiere recenti.

Ci fu, poi, anche una confusione di ruoli: l’Iri doveva istituzionalmente sostenere il Mezzogiorno, poi rimodellare le relazioni industriali in concorrenza al duopolio Confindustria-triplice sindacale, infine stimolare per tutti il progresso tecnologico. Che infatti ci fu, in alcuni settori, come le telecomunicazioni, eravamo senza dubbio il miglior polo mondiale.

Peraltro, credere che la vecchia Iri possa divenire perfino la Sace-Simest, una società che è controllata al 100% da Cassa Depositi e Prestiti, è davvero un errore tecnico, oltre che una follia.
Che è, peraltro, vincolata statutariamente alle garanzie assicurative per le imprese che esportano o comunque hanno relazioni nei mercati esteri.

Si crede forse che lo statuto di una banca o di una bancassurance, come è oggi in effetti la Sace-Simest, possa allargarsi, come la famosa pelle di zigrino, fino a diventare la nuova Iri sognata, oggi, come un incubo buono, da coloro che sono andati al potere cianciando contro la razza padrona o il sistema delle relazioni tra politica e economia, che non è mai solo la banale corruzione, che pure c’è stata ed è stata grave?

Nel caso di Alitalia, esemplarissimo, è ovvio che un socio di minoranza nel cda della società nazionale, come dovrebbe essere Cdp e come ipotizzano certi ministri, del volo turistico, non ha senso alcuno. Deve pagare sempre e comunque i debiti originati da scelte altrui? E Perché mai?
Certo, fu un grave errore accettare il diktat della Commissione Ue diretta da Van Miert, allora, nel 1997, con un accordo, diretto proprio dal socialista Van Miert, che in effetti prevedeva lo smantellamento della intera nostra industria di Stato, speculando in Ue sul fallimento di fatto dell’Efim.

Che era l’Ente pubblico nostro che coordinava, era l’ Ente partecipazioni e finanziamento industria manifatturiera, nato nel 1962, nell’ambito Iri, l’attività di alluminio, aeronautica, mezzi di difesa, strumenti di trasporto su rotaia e su gomma, vetro e impiantistica. Finì l’Efim, lo ricordiamo, nel 1993, ma gli errori di gestione furono, in questo caso, sia nella gestione dell’Ente che nella crisi strutturale e globale di alcuni settori, ormai aperti alla concorrenza mondiale.

Ecco, se si crederà, come infatti credono alcuni, che il mercato globale non esista, basta infatti, magicamente, porsene fuori. Ma solo allora passeremo dall’Iri davvero sognata dagli attuali ministri, ad una Iri reale, allora, che nacque, è bene ricordarlo, prima dell’uscita della General Theory di Keynes, ma arriveremmo comunque solo a ripetere i successi di una notissima società californiana di cartoni animati. I sogni son desideri…

Ma perché, poi, è finita l’Iri, a parte qualche errore tecnico di svendita di certi asset, o la cedevolezza culturale al vecchio mito dalla invisible hand di Adam Smith, sul quale, peraltro, ho scritto anni fa un testo, per illuminarne gli aspetti esoterici e magici? L’Italia aveva una spesa pubblica fuori controllo, e le relazioni industriali, anche nelle future pmi autonome dai grandi gruppi, era oliata dalle sole svalutazioni competitive.

Un errore tecnico, più che politico. Grazie a queste operazioni, che furono comunque immediate, e tali comunque da sostenere i nostri mercati esteri, si ebbe l’effetto, nel 1973, l’anno che dobbiamo sempre tenere in mente, che il marco tedesco e lo Yen giapponese si rivalutarono, fin da allora, sia verso la lira che verso il dollaro Usa, e da lì derivò che l’Italia, ogni anno, aveva il 5,1% di inflazione più degli Usa, il 16% più del Giappone e ben il 16,4% in più della Germania.

Tutto nasce di lì, e da scelte spesso sbagliate, ma senza colpa, che furono intraprese allora.
Dal 1981 al 2000-2001, anno di introduzione dell’euro, è completamente andata perduta la simmetria monetaria tra lira e dollaro Usa, risultato dato soprattutto dalla crescita incontrollabile del debito pubblico italiano, e si arrivò quindi alla operazione speculativa del 1992 contro la Lira italiana e la lira sterlina, che ci costò, secchi e duri, 51mila miliardi di lire.

Si vuole forse ritornare a quei tempi, e con l’aggravante di un mercato globale dei titoli del debito pubblico ben più organizzato e “cattivo” di quello di allora? L’Italia dovette svalutare del 30%, il che non è certo poco, ma che era questa, comunque, tutta l’inflazione accumulata in più rispetto alla Germania, negli anni del dopo-Caduta di Bretton Woods. Noi non possiamo mai fare a meno di essere esportatori netti. Ricordiamolo.

Se noi espandessimo il mercato interno a sfavore dell’export avremmo quindi non la nuova Iri, ma la piena e progressiva deindustrializzazione, che abbiamo peraltro visto e continuiamo a vedere da vicino, dato che seguiamo le belle fole leopardiane degli anni ’70 e non ci occupiamo organicamente delle nostre pmi.

Ecco, a questo punto, nei primi anni ’80, si pensò alla creazione di un vincolo esterno, come fu chiamato allora, per cedere sovranità economico-monetaria, e per uscire dall’angolo del quadrato di boxe in cui eravamo finiti, con questa sequenza continua di rivalutazioni automatiche che generavano automaticamente iper-valutazioni estere. Allora, la questione era semplice: o “cedere sovranità”, come dicevano i tecnici, per recuperare almeno alcuni mercati esteri, oppure nulla.
Ovvero, la morte industriale e economica dell’Italia.

Mediobanca, che era controllata dalle tre Bin, Banche di interesse nazionale, era il venditore primario di obbligazioni e azioni, per tutte le imprese, pubbliche e private. Ed era un mercato pienamente controllato dallo Stato. Il nostro Stato sociale, nato negli anni ’60 e ’70, fu costruito con entrate che erano, già a quei tempi, inferiori alle uscite. Ed è da qui che si origina il grande debito pubblico italiano.

E ce lo faranno risputare tutto, prima o poi, coperto o meno dalla valuta unica europea, che sarà la foglia di fico di operazioni molto aggressive. Prima, nella fase Iri vera, bastava che l’Italia, con il suo sistema di relazioni industriali statizzate, vendesse il suo debito pubblico a un pubblico che, oggi, si direbbe “fidelizzato”. Oggi, è inevitabile, c’è il mercato globale dei titoli del debito pubblico, che si fanno peraltro concorrenza tra loro.

E credete forse che i titoli di debito pubblico che finanziano le nuove Iri saranno indipendenti, ma soprattutto manipolati, da una valutazione, tutta del compratore, sul merito di credito e sull’interesse da pagare sui titoli? Alla fine della crisi degli anni 80-90, o si fermava quindi la crescita salariale, e qui era uno dei ruoli istituzionali dell’Iri, quello della crescita del monte-salari nazionale, peraltro, oppure si investiva, restringendo i salari, su tecnologie evolute che ci avrebbero protetto dalla crescita del costo del lavoro.

Come ci siamo arrivati, e comunque perché siamo ancora qui? L’Italia ha una forte, ancora, base industriale, è da sempre una economia di trasformazione. Inevitabile. L’incertezza sul debito chiede un premio per il rischio, sui mercati globali, che sono quelli che contano: allora, più spesa pubblica in deficit più alto il premio per gli investitori, e più brevi anche le scadenze dei titoli, peraltro.
Ecco, questa fu la macchina che, alla fine, distrusse, purtroppo, la grande impresa di Stato. E continua a operare. Altro che i film sugli anni ’60…

E, poi, la Cassa Depositi e Prestiti, che forse qualche ministro non sa che è proprietaria di Sace-Simest, raccoglie in primis il risparmio postale, con un capitale che è posseduto per il 70% dallo Stato e, per il rimanente, da ben 66 fondazioni bancarie. La Cdp non è comunque una banca e, in ogni caso, non può svolgere le funzioni tipiche delle banche, dato che è, peraltro, sottoposta a una vigilanza ben diversa da quella delle banche, in Bankitalia.

Fino al 2003, la Cdp erogava soprattutto prestiti agli enti pubblici territoriali ma, se tutti gli investimenti che si fanno sono iscritti sul debito pubblico italiano, che non è ancora concorrenziale e palatable, come dicono gli analisti di Borsa britannici, ai clienti globali, che intanto sono diventati “cartelli”, allora si tratta di spese, non di entrate.

Nel caso Arcelor-Mittal, per esempio, la vecchia Ilva di Taranto, lo Stato e i privati franco-indiani hanno chiesto allo Stato italiano un sostegno, e allora si è chiamata, da parte del governo, Invitalia.
Che è una società che attrae investimenti nel nostro Paese, e che afferma, nel suo sito, di aver creato 6.918 nuove imprese, 1.084 start-up innovative, 163 grandi finanziamenti, 6,8 altri investimenti finanziati. Non basta affatto.

Bene, allora ci si sta convincendo, in ambito governativo, che ci sono “aperture di trattativa” per l’entrata dello Stato, con le coordinate che vi ho appena descritto. Ed è forse questa la nuova Iri che vogliono? Speriamo di no.


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