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Propaganda cinese (e ruolo della Rai). Laura Harth sollecita il Parlamento

É di bon ton questi giorni parlare di una guerra in atto, il mondo intero unito nel combattere il coronavirus. Ed è un paragone pericoloso, che ci vede infatti sacrificare con troppa facilità diritti e libertà, l’ultima dei quali la privacy. Inoltre, quella finta unità mondiale nasconde il vero conflitto in corso, quello sì una guerra vera e propria, anche se non combattuta con le armi convenzionali.

Sembra ormai anni luce lontani, ma qualcuno si ricorderà ancora come questo strano anno che è il 2020 era iniziato con grandi annunci della minaccia di una terza guerra mondiale, con le azioni americane contro il regime terrorista di Teheran. Erano gli stessi giorni in cui a Wuhan scoppiava la bomba del Covid-19, ma la notizia fece poca breccia sulle rete unificata dell’informazione, certamente anche per la politica sostenuta da quell’altro regime, il Partito comunista cinese, di nascondere e distruggere le informazioni.

Mai come prima, per chi vuole vedere, è evidente che lo scontro della terza guerra mondiale si gioca innanzitutto sul piano informativo. Era uno scontro non solo annunciato, ma in atto da tempo. Da anni assistiamo all’incapacità politica di rispondere adeguatamente alle sfide poste dalle nuove tecnologie. Non c’era da aspettarsi certamente altro da una politica da sempre incline a rispondere alle sfide societarie con misure proibizioniste e liberticide per la popolazione. E così, lo scoppio della bomba virologica è come l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, la scintilla che accende la miccia serpeggiante da anni.

L’obiettivo principale di questo scontro: il controllo massiccio delle popolazioni, non solo in termini dei loro spostamenti, ma sopratutto nel tentativo di controllarne le opinioni. E così in nottetempo ci troviamo dinanzi le commissioni di verità sulle informazioni, la propaganda scatenata da un esercito di bot sui social, la non di meno propaganda del governo italiano – a partire dal suo presidente del Consiglio – sempre più reticente nei confronti di una stampa libera e pluralista. Un modello Wuhan quello sì a tutto tondo.

Voci critiche e d’opposizione targate traditori, collaborazionisti del virus con l’accusa di politicizzare una crisi globale che ci vuole, appunto, tutti uniti. Le stesse accuse lanciate ieri, 8 aprile, dal direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante una conferenza stampa. Accuse di politicizzazione dinanzi le ripetute richieste di permettere a Taiwan, Paese quello sì esemplare nella sua capacità di combattere efficacemente la pandemia  (però, non si dovrebbe dire), una sedia al tavolo dell’organizzazione.

Addirittura il ritorno delle già sentite accuse di razzismo. Vi ricordate sì la prima urgente campagna dell’abbraccio a un cinese a emergenza sanitaria nazionale dichiarata? In risposta alle critiche di Taiwan, il direttore generale dell’Oms, probabilmente visto il successo di tale campagna da parte di Pechino con buona mano dell’establishment italiano, ha accusato Taipei di razzismo nei confronti degli africani. Una strategia di “political correctness” che insieme al potere crescente delle tecnologie ha dimostrato la sua efficacia nel controllo della libera espressione.

Taciute nel frattempo le sempre maggiori istanze di cittadini stranieri in Cina che si vedono negato l’ingresso nei locali che sono soliti frequentare da anni. Nascoste dai mass media le vignette razziste nei confronti degli occidentali che girano in massa sui social cinesi. Nessuna obiezione ufficiale all’accusa all’Italia di essere la vera fonte del virus – ma per favore, non chiamiamolo “virus cinese”, compagni, political correctness above all. No comment anche alla chiusura ai voli internazionali da parte della Repubblica Popolare Cinese – comprensibile per carità -, quando gli Stati Uniti e l’Italia erano stati duramente criticati per la stessa scelta verso i voli cinesi settimane prima, ivi incluso i rimproveri del direttore generale Tedros stesso.

Ecco a voi come Pechino ha parlato in queste settimane dell’Italia, il suo primo grande alleato nel G7 sulla Via della Seta: un Paese di untori e razzisti. Messaggio non smentito ufficialmente nel primo caso, e rafforzato dal governo nel secondo. C’è da includere poi l’accusa di ingratitudine degli italiani nei confronti del Partito comunista, perché come ci ha detto in una conferenza stampa il vicepresidente della Croce Rossa cinese, gli pareva incredibile che ci fossero delle, ben minime, critiche agli “aiuti” sanitari cinesi, vendutoci a caro prezzo non solo in termini monetari.

Il vero problema però non sta in quelle accuse o negli insulti lanciati nei nostri confronti da parte di Pechino, né nell’esercito di bot online pagati per influire sulle nostre opinioni. Sono le armi contemporanee di un Paese che non nasconde la sua ambizione di diventare il dominus del mondo, volendo dichiaratamente imporre un “modello socialista con caratteristiche cinesi” a tutti noi. Il pericolo vero sta nella sottomissione ormai accertata delle nostre istituzioni governative. Sta nel fatto che il terreno che hanno preparato da anni, quello dell’informazione “ufficiale” della stampa italiana, a partire dalle reti pubblici, ha capitolato completamente nei confronti del regime cinese.

I dati pubblicati ieri su Formiche.net nell’articolo di Gabriele Carrer sono lo specchio eclatante di una realtà sconcertante: la manipolazione dell’opinione pubblica sulle rete unificati dei mass media italiani con, guarda caso, un incremento notevole delle opinioni pubbliche a favore di Pechino. Non è un dato nuovo, il Partito Radicale lo denuncia ormai da decenni. Ma nello scenario di guerra globale dell’informazione in cui ci troviamo, questo scontro non si gioca più soltanto al livello della competizione tra partiti politici italiani. C’è di mezzo la posizione italiana nel nuovo ordine mondiale che si andrà a definire alla conclusione di questa pandemia. C’è di mezzo la nostra libertà di opinione, svuotata di ogni senso se non parte dalla possibilità di formarsela liberamente, sulla base di informazioni imparziali, oggettive e pluraliste. Con essa c’è di mezzo la nostra libertà di esprimerci, di manifestare idee. Insomma, c’è di mezzo il nostro modello democratico, esattamente come lo vuole Pechino.

Avevamo denunciato da tempo la penetrazione del regime cinese nei mass media italiani. Da anni, varie agenzie di stampa e reti radiotelevisive avevano sottoscritto degli accordi con i loro controparti cinesi, rigorosamente sotto il controllo del Ministero per la Propaganda. La strategia di Mao, “Far servire la Cina dagli stranieri”, è stata rigorosamente rafforzata dall’insediamento di Xi Jinping alla presidenza della Rpc. In un comunicato del 22 aprile 2013, ad appena un anno del suo insediamento di Xi Jinping, il Comitato centrale del Partito comunista, comunica il rafforzamento della “Sfera ideologica” su tutti i fronti. Tutti gli organi di Stato devono “impegnarsi nel rafforzare la gestione di tutti i tipi e livelli di propaganda al livello culturale e non lasciare nessuna opportunità o sbocchi per diffondere pensieri o punti di vista errati” e i giornalisti devono “persistere nell’armare la mente con il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. E ancora: “dobbiamo rafforzare l’educazione sulla prospettiva marxista dei media per garantire che la leadership nei media è sempre saldamente controllata da qualcuno che mantiene un’ideologia identica al Comitato centrale del Partito, sotto la guida del Segretario Generale Xi Jinping”.

Ed ecco che il Paese di “ingrati untori e razzisti” si appresta. Il 20 marzo 2019, il Sole 24 Ore scrive: “Il presidente cinese Xi Jinping non è ancora decollato dall’aeroporto di Pechino con destinazione Roma per la visita di Stato di due giorni in Italia e già si firmano i primi accordi di collaborazione tra i due Paesi. È proprio il mondo dell’informazione e dei media a dare la stura ai circa 30 accordi economici che verranno firmati sabato a Villa Madama tra Xi e il premier italiano Giuseppe Conte.”

Infatti, in quei giorni, all’accordo ultra-decennale tra l’agenzia di Stato cinese Xinhua e Agi e Class Editori, si aggiungono degli accordi tra lo stesso Sole 24 Ore e il China Economic Daily, quotidiano di riferimento per l’informazione economica del governo cinese. L’accordo tra Ansa e Xinhua, gli accordi tra il China Media Group (Cmg – nata nel marzo 2018, subordinata al Consiglio di Stato cinese e sotto la direzione del Dipartimento per la Comunicazione Politica del Comitato Centrale del Pcc) e Rai, Mediaset e Class Editori.

Questi ultimi tre, per l’occasione della visita di Stato in Italia del presidente Xi Jinping, il 21 marzo lanciano la “Settimana della Tv cinese”, nel corso della quale vengono trasmessi 20 lungometraggi, documentari e serie Tv selezionati dal Cmg, tra cui la versione italiana delle Citazioni letterarie di Xi Jinping. Momento emblematico dell pluralismo del mercato televisivo italiano: tre concorrenti che a rete unificate trasmettono la propaganda di Pechino. Per parafrasare Pannella: non sono tutti uguali, ma di fronte a certi interessi sì.

Possono dunque sorprendere i dati sulla disequilibrata copertura degli “aiuti” (che perlopiù proprio nel caso di Pechino spesso si sono rivelati acquisti) sanitari all’Italia? Dobbiamo meravigliarci se l’opinione pubblica italiana, che evidentemente e come ribadito più volte con dati alla mano da Marco Beltrandi, consigliere generale del Partito Radicale, non si forma soltanto sui social media, ma continua ad informarsi preponderantemente attraverso le reti tradizionali, si è spostata pericolosamente a favore di un regime sanguinario? Francamente no. In questa guerra mondiale la propaganda informativa può essere per la prima volta l’arma principale del confronto: lo strumento stesso è vecchio quanto le civiltà umane.

E proprio per questa ragione, rimane incomprensibile la sua mancata riconoscenza come un settore strategico – forse il più strategico in questo momento – da parte delle nostre istituzioni. Ed è inaccettabile che con i soldi degli stessi contribuenti italiani la rete radiotelevisiva pubblica si presta a manipolarne le opinioni per conto di un potere straniero.

La base dell’accordo triennale tra Rai e Cmg, secondo quanto dichiarato in un comunicato stampa della Rai parla di “promozione della cooperazione reciproca”. In questi mesi abbiamo potuto constatare chiaramente cosa questa promozione reciproca vuole dire concretamente: gli insulti e le accuse verso l’Italia nei media cinesi, le lodi e la promozione del pensiero di Xi Jinping per i nostri cittadini. Qualcosa ci dice che su questo punto però la Commissione di verità del governo non interverrà. Ed è però doveroso e non più rinviabile l’immediato esame e desecretazione dell’accordo sottoscritto da enti mediatici che godono di finanziamento pubblico da parte delle autorità competenti, parlamentari e non.

Il rafforzamento “dell’educazione sulla prospettiva marxista dei media per garantire che la leadership nei media è sempre saldamente controllata da qualcuno che mantiene un’ideologia identica al Comitato centrale del Partito,” per “persistere nell’armare la mente con il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” non è e non può far parte del mandato di servizio pubblico.



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