Ci sono diversi modi di pagare il prezzo di una crisi, la peggiore che potesse capitare in oltre 70 anni di storia italiana ed europea. C’è il Pil che crolla (il Def, in fase di approvazione, sancirà un crollo del 10% per il 2020), ci sono gli investimenti che si congelano e i consumi che sprofondano. Poi c’è il debito sovrano, il filo rosso che unisce tutte le principali voci di qualunque bilancio pubblico. Senza Pil, non si paga il debito, specialmente se, come per l’Italia, l’esposizione è la terza al mondo per volume: 2.500 miliardi. Domani sera, a Borse chiuse, il tema sarà quasi certamente questo.
ASPETTANDO STANDARD&POOR’S
Standard&Poor’s dirà se il debito sovrano italiano può essere ancora venduto sui mercati oppure se i titoli che il Tesoro emette con aste mensili, varranno poco più di niente. L’agenzia di rating dovrà infatti aggiornare la sua valutazione sul rating sovrano italiano, attualmente due gradini sopra il junk, ovvero spazzatura. L’8 maggio dovrà poi esprimersi Moody’s, la cui valutazione è di solo un gradino sopra il livello spazzatura, quello della Grecia ai tempi della Troika, per intendersi. A luglio, infine, toccherà a Fitch. L’Italia, se può consolare, sarebbe comunque in buona compagnia visto che i downgrade sovrani potrebbero colpire anche anche Spagna, Portogallo e persino Francia.
Ma che cosa significa tutto questo nel lungo termine per il nostro Paese? Le agenzie di rating si stanno ponendo questo problema: come può un Paese che perderà il 10% della sua ricchezza (circa 200 miliardi, tanto per dare un’idea) sostenere un debito tra i più alti al mondo? Per di più, con un rapporto debito/Pil tra il 155 e il 160%, secondo le stime del Def. Di qui la possibilità, concreta, di un downgrade sui nostri titoli di debito.
I RISCHI
Bisogna sempre ricordare che lo Stato italiano per funzionare ha bisogno di circa 7-800 miliardi all’anno. 300 vengono dalle tasse, gli altri dai mercati che comprano i nostri titoli in cambio della liquidità prestata. Il punto è che già oggi, quando ancora il nostro rating non è junk, l’Italia è costretta a promettere rendimenti a ridosso del 2% pur di convincere gli investitori a comprare i nostri titoli. La prova è in uno spread decisamente sostenuto, a 244 punti base. Un downgrade del nostro debito avrebbe come effetto primario l’impennata dello spread e dunque l’impossibilità per l’Italia di collocare il debito senza promettere un premio di rischio elevatissimo, dunque insostenibile. Sarebbe un bel problema, perché un debito poco sostenibile porta dritti all’insolvenza di uno Stato, con tutte le conseguenze del caso, a cominciare dal sistema bancario, gonfio di 370 miliardi di titoli pubblici (uno spread troppo alto ne eroderebbe i patrimoni, come già avvenuto ai tempi del contratto gialloverde, nel 2018) e dalle imprese.
IL PARACADUTE (ITALIANO) DELLA BCE
A Francoforte devono essersi accorti del pericolo, al punto da prendere nel consiglio direttivo di ieri, una decisione storica, molto simile a un altro bazooka ma pro-Italia: accettare in garanzia dei prestiti che la Bce eroga al sistema finanziario, i cosiddetti collaterali, anche i titoli junk. Esattamente, stando a quanto si legge nella nota diramata in serata, titoli che fino allo scorso 7 aprile avevano una valutazione pari a BBB- e che rischiano, con un eventuale downgrade da parte delle agenzie di rating, di perdere l’investment grade rating e di precipitare nel girone dei titoli junk.
La Banca centrale che finora si è infatti sempre tenuta ben alla larga dai rating spazzatura cioè sotto il livello di investimento (sotto la BBB-), ha deciso insomma di rimuovere alcuni paletti sui junk bond, per anticipare lo scenario peggiore. La decisione, presa dal consiglio direttivo riunito in conference call e che finora era stata riservata alla Grecia, vale fino a settembre 2021 e la Bce “può decidere, se necessario, ulteriori misure per continuare ad assicurare la trasmissione della politica monetaria in tutti i Paesi dell’Eurozona”.
Di più. Non è escluso che questa sera, i membri del Consiglio Ue abbiano inizieranno a discutere anche di un’altra apertura importante per allentare le tensioni del mercato: l’acquisto di titoli di Stato, e corporate bond come ha già annunciato la Federal reserve, con rating junk nel programma pandemico Pepp, ovvero il super Qe da 750 miliardi annunciato a marzo scorso.
OCCHIO ALLE BANCHE E AI FONDI
“La decisione della Bce”, spiega a Formiche.net un esperto, “sembra in qualche modo anticipare che un downgrade sui nostri titoli sia già stato deciso. Dare come collaterale un titolo junk vuol dire che il downgrade potrebbe essere certo, è un segnale. Ora il problema è enorme e le conseguenze sarebbero tante. Tanto per cominciare ci sono molti sovrani e istituzionali che da regolamento potrebbero non essere più in condizione di sottoscrivere titoli junk”, spiega. “Penso ai fondi grossi, quelli che di solito comprano il nostro debito. L’altro problema sono le banche, che di titoli ne hanno molti in pancia. Se i nostri titoli fossero portati a junk gli istituti di credito potrebbero andare incontro a delle svalutazioni a fine anno, con tutti i riflessi del caso”.
In merito alla decisione della Bce, non è il caso di sbilanciarsi troppo invece. “Mi pare una soluzione tampone, che certamente potrà annacquare le tensioni sui mercati ma la direzione, coi titoli junk è quella di una ristrutturazione del nostro debito, quando non un default pilotato. Non un bello scenario, si vedrà domani sera”.