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Golden power e non solo, quale strategia contro le scalate ostili. Parla Mucchetti

Prevenire è meglio che curare. Non c’è settore più adatto della finanza per mettere in pratica questo saggio e un po’ inflazionato proverbio. Soprattutto oggi, con una crisi sanitaria, quella del coronavirus, che ha suonato un campanello d’allarme sui mercati e per le grandi aziende italiane quotate che hanno subito una grave perdita di capitalizzazione sul mercato telematico e ora rischiano di diventare preda di azioni ostili. Uno strumento, il Golden power, è oggetto di revisione in un lavoro di concerto fra Copasir e governo, entrambi convinti dell’opportunità di un rafforzamento dei poteri speciali. Lo scudo sugli asset strategici introdotto dal governo Monti è una soluzione efficace e anche necessaria, ma agisce sempre ex post.

Ci sono altre barriere che si possono issare per scoraggiare scalate ostili prima che abbiano inizio, spiega a Formiche.net Massimo Mucchetti, già vicedirettore del Corriere della Sera e dell’Espresso, già senatore del Pd e presidente della Commissione Industria di Palazzo Madama. Si può ad esempio agire con una maggiorazione dei diritti di voto degli azionisti stabili, dice l’ex senatore. È una strategia, fra le altre, che permette di abbandonare una logica meramente difensiva degli asset strategici.

Mucchetti, le società quotate sono state indebolite dal crollo della Borsa. Sarà una crisi transitoria o durerà a lungo?

La grave caduta delle quotazioni espone al rischio di scalate ostili le società senza un azionista di controllo forte. Molte delle maggiori imprese italiane industriali e finanziarie possono essere conquistate a prezzi di saldo da soggetti dotati della necessaria liquidità. Questa situazione appare destinata a durare a lungo, perché la fuoriuscita dalla crisi economica e finanziaria si profila lenta e problematica.

La Consob ha bloccato le operazioni allo scoperto per tre mesi e ha abbassato la soglia di comunicazione del possesso azionario all’1%. Abbiamo così saputo che ha Bank of China ha l’1% di Eni. Ha fatto bene, la Consob? E che cosa può fare il governo?

La Consob ha fatto il mestiere suo. Le soglie di comunicazione vanno e vengono nella storia. La partecipazione cinese nell’Eni è evidentemente una partecipazione finanziaria. Diverso è il peso di Chem China in Pirelli, anche se, dati gli accordi di governance con Camfin, non è di per sé ragione di preoccupazione nel breve. Certo, con l’obbligo di rivelarsi già all’1%, è più difficile costruire in modo clandestino pacchetti azionari aggressivi. E la Consob forse potrebbe arrivare a interessanti scoperte vigilando sul mercato dei titoli di Stato. Chissà. Il governo può e deve evitare che l’Italia diventi, più di quanto già non fosse, terra di conquista da parte dei predatori. Naturalmente, l’obiettivo è chiaro a questo governo, come del resto anche ai precedenti. Il punto è come raggiungerlo sapendo che il teatro delle operazioni non sarà solo la Borsa.

Sarebbe a dire?

Non c’è solo la contesa per il controllo in Borsa. Leonardo, per esempio, è un gruppo formato da numerose aziende. Non credo che nessuno oserà sfidare lo Stato italiano che ne possiede il 30%. Ma se la politica estera è debole, se magari si fanno inchieste giudiziarie improbabili come quella sugli elicotteri all’India, se magari, ciò che non è, il management fosse non adeguato, le posizioni di Leonardo potrebbero essere erose sui mercati internazionali senza toccare la Spa. Lo stesso vale per Eni o Enel. Ma vengono al pettine anche vecchi nodi: quando la fusione Psa-Fca sarà perfezionata avrà più influenza l’Exor o il Tesoro francese e questo come si rifletterà sul tessuto produttivo della combined entity? Ma certo, al di là questi problemi, il controllo delle assemblee conta.

A proposito, lei ha sollevato il tema della maggiorazione dei diritti di voto per gli azionisti stabili.

Già. La maggiorazione dei diritti di voto è possibile dal primo gennaio del 2015, quando è entrato in vigore l’articolo 127 quinquies del Testo unico della finanza. Per averla, bisogna modificare lo statuto sociale attraverso l’assemblea straordinaria che vota con la maggioranza dei due terzi. Ma la norma aveva anche previsto un periodo transitorio di cinque mesi (dall’agosto 2014, quando venne approvato il decreto Competitività, che la introduceva, al 31 gennaio 2015) nel quale la modifica degli statuti poteva essere approvata con la maggioranza semplice. Ricordo questo dettaglio per dire che il legislatore non solo aveva sdoganato il superamento del criterio one share one vote, ma aveva anche previsto un’eccezione, sia pure temporanea, al Tuf.

A suo tempo Assogestioni si oppose. Non rischia oggi di far infuriare i fondi?

In effetti, quell’eccezione apriva una finestra di opportunità per le società quotate senza un azionista di controllo forte. Ma era stata troppo breve per essere effettivamente utilizzata. Provai ad ampliarla utilizzando il decreto Milleproproghe del gennaio 2015, ma la levata di scudi dei fondi convinse il governo a chiuderla lì. Fu un errore che favorì la migrazione di alcune grandi società, a cominciare dal gruppo Exor, in Olanda, Paese molto più permissivo in materia.

Appunto…

La posizione dei fondi era comprensibile. Al valore della continuità in funzione di piani di sviluppo ambiziosi anteponevano il valore del compra e vendi con la possibilità di innalzamento delle quotazioni grazie alla contendibilità del controllo. Ma il governo avrebbe dovuto e oggi dovrebbe privilegiare lo sviluppo. Il mondo è cambiato. E si è visto come FCA o Campari, che hanno scelto il voto maggiorato, sono andate benissimo in Borsa.

Ma non sarebbe come cambiare le regole in corsa?

Ogni nuova norma cambia l’assetto precedente. Il punto, semmai, è la retroattività, che comunque non è un dogma. Se decidesse di imboccare questa strada, il legislatore potrà tener conto delle situazioni pregresse secondo le modalità più utili al Paese.

La maggiorazione dei diritti di voto protegge gli asset strategici o incide solo sulla corporate governance?

Molto dipende da come, se mai si facesse, verrà steso il provvedimento. In generale si può dire che modifica la corporate governance evitando incursioni pericolose da parte di soggetti non graditi. Dunque, protegge.

Per questo non basta il Golden power, che è già esteso a molti settori?

Il Golden power consiste nell’assegnare al governo il potere di dettare condizioni o anche di opporre veti a operazioni considerasse lesive dell’interesse nazionale. Con le modifiche del 2017, il Golden power è una difesa versatile, utilizzabile in moltissimi casi.

Non bisognerebbe considerare anche i settori come il farmaceutico, il biomedicale e l’alimentare che sono ormai considerati decisivi nell’emergenza sanitaria?

Il Golden power è esercitabile a largo spettro, ma non in una logica di chiusura autarchica, fatta di soli veti. Impone di dare comunicazione al governo delle operazioni sensibili, premessa di eventuali interventi. Ma ha due limiti: funziona contro operazioni predatorie di soggetti extraeuropei, molto meno rispetto a soggetti europei, ed è uno strumento puramente difensivo, mentre oggi servono sia la difesa che l’attacco.

Che cosa intende dire?

Non basta proteggere. Bisogna sviluppare. Chi sta fermo, perde. E per sviluppare all’azionista di controllo servono i capitali di rischio. Non si può far tutto a debito. La maggiorazione dei diritti di voto consente di diluire la partecipazione al capitale di rischio nel caso di nuove emissioni o di fusioni tra società senza perdere quel controllo che garantisce nel tempo la realizzazione del progetto di sviluppo.

Proprio al fine di proteggere gli stati patrimoniali e lasciare risorse per la ripresa, la Bce ha detto di sospendere il pagamento dei dividendi e il governo francese li ha bloccati nelle aziende che ricevono sussidi pubblici. Il governo italiano, invece, sembra averne troppo bisogno.

La presa di posizione della Bce è giustificata dalla necessità di far fronte alle prossime insolvenze dei debitori di banche e assicurazioni, le quali già nel dopo Lehman vennero salvate grazie a fondi pubblici e di nuovo in questa fase riceveranno garanzie pubbliche sui crediti e forse anche iniezioni di capitale. È la stessa logica che ispira il governo francese. Può essere un criterio valido a patto di conservare il senso della misura.

Ovvero?

Le imprese non finanziarie sono diverse da banche e assicurazioni: se i sussidi pubblici sono minimi e il bilancio resta solido perché impedire la remunerazione degli investitori? Andrebbe anche chiarito che cosa si intende per sussidi. Lo sconto sui carburanti per le imprese di autotrasporto è certo un sussidio ma fa parte ormai del paesaggio. Un conto, insomma, è uno slogan e un altro conto è la complessità del reale. Certo, se un domani lo Stato dovesse iniettare capitale di rischio in un’impresa privata per salvarla dovrebbe aver diritto a un privilegio nei dividendi futuri. In ogni caso, il governo italiano ha bisogno dei dividendi delle società partecipate più di altri governi.

Sarebbe opportuno istituire un nucleo di analisi a palazzo Chigi sulla scia dell’esperienza francese per coordinare la politica di intelligence economica?

Non mi intendo di intelligence, ma immagino che i servizi già se ne occupino e che rispondano alle istituzioni preposte. Se non fosse abbastanza, certo bisognerebbe rafforzarla.

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