L’Italia per la prima volta dall’inizio degli anni Novanta si prepara a lasciare il club dei contributori netti dell’Europa, cioè di quei Paesi “pagatori” che versano al bilancio dell’Unione più risorse di quelle che prendono. Tra gli effetti economici della crisi da coronavirus c’è anche questo e non è questione di poco conto. Dettaglio destinato a pesare nella trattativa che inizia oggi al Consiglio europeo sulle misure europee per fare fronte alla pandemia.
Il vertice che si terrà oggi in teleconferenza con i capi di governo dell’Unione europea non dovrebbe arrivare a nessuna conclusione. L’esito dei colloqui a distanza dovrebbe essere un mandato alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen affinché faccia una proposta per dare concretezza a quello che al momento è l’unico possibile punto di incontro tra le posizioni contrapposte, cioè il fondo di soccorso proposto dalla Francia. Un piano che potrebbe mobilitare risorse per 1.500 miliardi di euro (stanziando comunque una cifra inferiore, secondo il meccanismo già sperimentato con il piano Juncker), partendo da una possibilità già prevista dai trattati europei e utilizzando risorse in parte provenienti dai bilanci europei, in parte dall’emissione di titoli di debito europeo.
La trattativa negli ultimi giorni si è concentrata sul come attribuire le risorse europee. L’Italia è stata capofila dei Paesi che chiedono di erogare aiuti a fondo perduto (grants) e non sotto forma di prestiti (loans) come chiedono i Paesi del Nord. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri in una intervista al Financial Times alla vigilia del vertice ha recapitato ai partner europei (ma anche al premier Conte che condurrà la trattativa e non ha ancora scoperto le carte sulla sua proposta riservata) un messaggio chiaro. Primo ha rassicurato la Germania spiegando che “non stiamo parlando di mutualizzazione dei debiti esistenti”. Poi ha spiegato che l’Italia insisterà sulla necessità che i fondi vengano distribuiti sotto forma di grants per “evitare un peso eccessivo” sui debiti pubblici dei singoli Stati. Il tentativo dell’Italia è quindi quello di evitare che le risorse europee aumentino il debito pubblico, mettendo a rischio i conti italiani già a partire dal 2021.
Possibile che il punto di caduta sia una soluzione intermedia, parte delle risorse sotto forma di prestito, parte a fondo perduto. In ogni caso l’effetto dei trasferimenti europei sarà quello di trasformare l’Italia in un Paese che riceve dall’Europa più di quanto versa. Nel 2017, ultimi dati disponibili quindi prima della Brexit, l’Italia ha versato nelle casse europee 12 miliardi e ricevuto contributi diretti per 9,8 miliardi. Facile immaginare che le risorse europee, anche in caso di un piano minimo di aiuti, facciano salire la voce dei trasferimenti europei all’Italia sopra i 12 miliardi. Sarebbe la prima volta dalla metà degli anni Novanta che l’Italia lascia il club dei contributori netti.
Il costo dei contributi a fondo perduto, oltre che sui bond europei ricadrebbe in parte sul bilancio europeo, a spese dei Paesi con economie più forti e con danni da pandemia minori, quindi quelli del Nord Europa non a caso impegnati a fare passare la linea degli aiuti sotto forma di prestito.
Con buona pace della politica italiana, la trattativa si concentra su questi aspetti e non riguarderà il Mes e la nuova linea di prestito senza condizioni e destinata all’emergenza sanitaria proposta all’ultimo Eurogruppo. Il dibattito politico interno e l’agenda europea, come spesso accade, viaggiano su binari diversi.